Dopo l’argento e l’oro, l’avorio era una delle materie più
preziose dell’antico Egitto: per questa ragione, i sovrani lo affidavano solo
agli artigiani più abili, capaci di realizzare raffinati oggetti di ogni tipo.
La necessità di procurarsi l’avorio fu anche uno dei motivi per cui vennero
organizzate le prime spedizioni in Nubia, con cui ben presto si stabilirono
relazioni commerciali stabili.
Gli antichi egizi ricavavano l’avorio in almeno due modi: i
più utilizzati allo scopo erano i denti di ippopotamo, che fornivano un
materiale di buona qualità e piuttosto facile da trovare; questi animali,
infatti, li perdono e sostituiscono regolarmente quando diventano troppo grandi
e fastidiosi. Quanto alle zanne di elefante, bisogna tenere presente che questo
pachiderma viveva molto più a sud, nei territori nubiani: i faraoni poterono
godere di questo pregiato materiale solo a partire del Medio Regno, prima
grazie alle spedizioni commerciali, poi con l’occupazione militare.
La lavorazione dell’avorio richiedeva molta pazienza e
grande precisione da parte degli artigiani. Per questo motivo, considerando
anche la difficoltà nel reperirlo, l’avorio di elefante era destinato solo ai
lavoratori di corte, gli unici ad avere il privilegio di intagliarlo e ricavarne
oggetti preziosi. Peraltro, in virtù del suo colore bianco crema, spesso opaco,
l’avorio era considerato un simbolo di purezza assoluta: pertanto, solo mani
esperte e di fiducia potevano maneggiare questa sorta di “dono degli dei”. Con
l’avorio, gli artigiani egizi realizzavano soprattutto piccoli oggetti di uso
quotidiano, come monili e accessori per il trucco, pettini, spatole per il fard
e contenitori per i più svariati unguenti, che sono stati ritrovati in molte
tombe, deposti accanto al defunto, di cui, secondo le credenze dell’epoca,
continuava a servirsene nell'aldilà. Tutti gli oggetti erano finemente
intagliati con motivi geometrici o figure di animali.
L’avorio arrivava sul banco di lavoro dell’artigiano allo
stato grezzo. Le lunghe zanne ricurve venivano tagliate in piccoli cilindri,
poi cominciava il lavoro vero e proprio dell’artigiano. Innanzitutto, questi
esaminava molto attentamente ogni pezzo per coglierne al meglio le
caratteristiche: in questo modo, decideva la destinazione finale della materia
prima, in base agli ordini che doveva evadere. Per esempio, un blocco lungo e
stretto poteva essere adatto per realizzare una statuetta o un oggetto da
toilette, un altro più compatto poteva prestarsi per creare un portagioie, e così
via. In ossequio alla concezione dell’arte diffusa a quei tempi, l’artigiano si
serviva quindi del suo estro per “liberare” la forma finale dell’oggetto da un
blocco di materia. Un po’ alla volta, scheggia dopo scheggia, si avvicinava
alla forma intuita fin dall’inizio: con gli utensili adeguati, l’artista
continuava a definire i dettagli e la decorazione. Alla fine, l’oggetto veniva
lucidato per mezzo di una polvere abrasiva, che conferiva al prodotto finito il
suo caratteristico bagliore lattiginoso. Gli scarti di lavorazione non venivano
gettati, ma riutilizzati per magnifici lavori di intarsio. Nel corso dell’intero
procedimento, semplice solo i apparenza, l’artigiano doveva tenere conto che l’avorio
è estremamente friabile, se lavorato con un attrezzo: per non sbriciolarlo,
quindi, era necessaria una grande esperienza e la capacità di sapere istintivamente
fino a che punto ci si poteva spingere senza compromettere il risultato finale.
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