Visualizzazione post con etichetta Periodo greco-romano. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Periodo greco-romano. Mostra tutti i post

martedì 24 marzo 2020

Gli scavi di Heracleion


Per secoli, le uniche prove concrete dell'esistenza di Heracleion consistevano in una manciata di citazioni all'interno di testi antichi, si diceva che ai tempi del suo massimo splendore, negli ultimi anni del regno dei faraoni, Heracleion fosse un porto ricchissimo grazie alla posizione geografica che ne faceva il punto d'accesso all'Egitto. Si raccontava che, prima di scomparire circa milleduecento anni or sono sotto le acque del Mediterraneo, la città fosse stata visitata anche da Elena di Troia.
Mentre ben pochi studiosi ne mettevano in dubbio l'esistenza, la possibilità di ritrovarla era però tutt'altro che certa, fino a quando nel 2000 Heracleion è stata riscoperta a circa 6,5 chilometri di distanza dalla costa dell'attuale Egitto. Gli archeologi stanno ancora rinvenendo tavolette, monete d'oro ed enormi statue rimaste celate per secoli, che mostrano quanto tale sito fosse importante.
Il ritrovamento di questa città perduta non è stato semplice. I testi antichi localizzano Heracleion, conosciuta anche come Thonis, vicino ad Alessandria, alla foce del Nilo, nel punto in cui questo sfociava nel Mediterraneo, ma tutti coloro che avevano tentato di rintracciarla erano finiti su un binario morto.
Franck Goddio, presidente dell'Istituto europeo di archeologia sottomarina, non si è lasciato scoraggiare. Con l'aiuto della Commissione europea per l'energia atomica, ha sviluppato un magnetometro a risonanza nucleare specifico per scandagliare il fondo marino al largo della costa egiziana. Lo strumento rilevava gli oggetti tramite i disturbi da essi creati al campo magnetico dei fondali, e nel 1999 Goddio ha trovato finalmente qualcosa. Nella baia di Abukir, sulla costa settentrionale dell'Egitto, lo strumento ha riscontrato delle anomalie nei sedimenti argillosi, un segno dei cataclismi che distrussero la città. Heracleion e la vicina Canopo - un'antica Las Vegas che godeva di una pessima fama a causa della sua dissolutezza - erano state fondate su uno strato sottile di limo che ricopriva dell'argilla impregnata d'acqua. Una possibile teoria suggerisce che uno tsunami, in aggiunta alla pressione esercitata dagli edifici, abbia causato un drenaggio delle acque dall'argilla, facendo così collassare il terreno e distruggendo le città. Qualunque sia stata la causa del cedimento del terreno, si trattò comunque di un disastro annunciato. L'instabilità del substrato che fungeva da fondamenta alle città le rendeva destinate alla rovina.
  L'aiuto della scienza ha condotto il team di ricerca fino alla città perduta, ma per avere la prova definitiva che si trattasse proprio di Heracleion è stata necessaria l'esplorazione diretta da parte dei sommozzatori: “Durante il primo anno abbiamo trovato una cappella con delle incisioni, che apparteneva al tempio principale della città”, dice Goddio. "I geroglifici hanno rivelato che tale tempio era dedicato ad Amun-Gereb e sappiamo che questi era il dio adorato a Heracleion. La scoperta di tale prova ci ha dato grande carica".
Una volta identificato con certezza che si trattava di Heracleion, sono cominciati gli scavi subacquei e ci si è rivolti all'OCMA, il Centro per l'archeologia marina dell'università di Oxford, per studiare i reperti rinvenuti. Nel corso del tempo, anche il team di Oxford è stato coinvolto negli scavi.
"C'è tutto il divertimento di un normale scavo a terra, ma senza la parte noiosa della rimozione del terreno", dichiara Damian Robinson direttore dell'OCMA. "Dovevamo attraversare uno strato di cinquanta centimetri di sabbia e per farlo utilizzammo una draga".
Questo strumento pompa verso il basso dell'acqua con una canna posizionata su una barca in superficie e collegata a un tubo di plastica lungo quattro metri. L'acqua viene immessa in un punto localizzato alla metà del tubo di plastica e poi viene espulsa a un'estremità. Questo movimento dell'acqua crea un'aspirazione all'altra estremità del tubo, permettendo la rimozione della sabbia.
"La visibilità era davvero scarsa", dice Robinson. "C’erano giorni in cui si vedeva per qualche metro, altri solo qualche centimetro, e tutto ciò in una città sommersa con una superficie di due chilometri quadrati". Ma, nonostante la scarsa visibilità, la squadra è riuscita a scattare alcune notevoli fotografie dei reperti sul fondo del mare. Molte di queste immagini mostrano statue e steli, o iscrizioni, rinvenute nelle rovine del tempio più importante della città.
Questo complesso era il fulcro della vita urbana. "Il tempio era enorme", afferma Goddio. "Era lungo 150 metri e costituiva la base della vita sociale ed economica della città". Qui veniva distribuito il cibo agli abitanti e venivano riscosse le imposte doganali da tutti i battelli che entravano in Egitto. In questo modo il tempio era ricco e potente".


"Abbiamo un'idea abbastanza precisa della struttura del tempio. All'ingresso c'era una fila di statue: il faraone, la sua regina e anche il dio Hapi, simbolo della piena del Nilo, sinonimo di ricchezza e benessere. Hapi aveva sicuramente un'importanza particolare per questa città alla foce del Nilo, dato che la sua statua è la più grande mai rinvenuta tra quelle dedicate a tale divinità. Di solito erano statue piccole, ma la nostra è alta cinque metri".
Queste colossali statue del faraone, della regina e del dio Hapi sono state estratte dagli archeologi per effettuare studi più approfonditi. Sino a oggi gli archeologi hanno recuperato dal mare oltre cento statue e frammenti di sculture, oltre a centinaia di statuette più piccole e un gran numero di oggetti di minore importanza tra cui monete, vasellame e manufatti in piombo, molti dei quali oggetto di studio da parte dei ricercatori di Oxford.
Sono state anche rinvenute ulteriori statue in una diversa zona del sito. "Nel 2012 abbiamo trovato le prove di un altro importante tempio cittadino, più a nord rispetto all'altro, risalente a un periodo tra l'VIII e il IV secolo avanti Cristo. Quindi a Heracleion ci furono due templi di rilievo. Il primo fu distrutto da un disastro naturale, proprio come il resto della città, oltre mille anni or sono, e in seguito venne ricostruito più a sud. C'era talmente tanta ricchezza in questo luogo che nessuno decise di andarsene".
Mentre gli archeologi sono all'opera per la sessione di scavi di quest'anno l'aiuto di tecnologie quali il sonar determinerà dove è più indicato scavare. Il sonar invia degli impulsi sott'acqua a partire da un'imbarcazione in superficie e i reperti si riveleranno agli archeologi sotto forma di anomalie negli echi riflessi. "Siamo guidati dai rilevamenti effettuati con i magnetometri e con i sonar", afferma Goddio, "i quali ci mostrano dove scavare. Ai ritmi di oggi, penso che i lavori in questa città proseguiranno per secoli. Almeno lo spero". Quando Heracleion scomparve nell'VIII secolo d.C., la sua epoca d'oro era già tramontata da tempo. L'ascesa di Alessandria relegò Heracleion a un ruolo minoritario, e la città non riuscì più a recuperare l'antico posto di rilievo nel commercio marittimo. Quando sprofondò, era ormai ridotta a "un sito archeologico, una città già abbandonata", dichiara Robinson. "Quanto accaduto non va paragonato alla distruzione di Pompei a opera del Vesuvio nel 79 d.C., ma a un'ipotetica distruzione della Pompei odierna".
In ogni caso, il fatto che la rovina sia avvenuta in un periodo non florido, non modifica certo la sua importanza per gli archeologi. "La città è stupefacente perché è un emporio, un porto dove si mescolavano il mondo dei greci, dei persiani e degli egizi", dice Robinson. "Analizzando il vasellame e addirittura la forma delle ancore, si può determinare la diversa provenienza delle genti e il tipo di commercio in cui erano impegnate. Si tratta davvero di un sito eccezionale". Un libro aperto, ma ancora da sfogliare.

sabato 1 dicembre 2018

La vita e gli amori di Cleopatra VII

''L'incestuosa Tolomeide (...). L'empia sorella si sposa col fratello, già sposa del condottiero latino e,
 passando da un marito all'altro, possiede l'Egitto e si guadagna Roma''.
Lucano, Pharsalia, X, 68 e 357-359.


I versi di Lucano rappresentano il ritratto giunto fino a noi dell’ultima sovrana d’Egitto, che lussuriosa e disinibita incatenava il cuore di tutti gli uomini per arrivare al “trono” di Roma. Cleopatra è da sempre rappresentata come una capricciosa regina, e anche Dante la colloca tra i peccatori, ma era questa la sua vera natura?
Cleopatra VII era di stirpe macedone, discendeva del generale Tolomeo, amico fidato di Alessandro Magno, e che divenne poi il primo faraone della dinastia tolemaica, o lagida . Si dice di lei che era bella come nessun’altra e che fosse abile nell’arte della seduzione. In realtà oggi si pensa che non fosse tanto la sua bellezza ad attrarre gli uomini più potenti del mondo romano, quanto la sua voce melodiosa, che mista a una cultura senza pari, la rendevano molto più affascinante che graziosa. Infatti la sovrana tolemaica era capace di declamare i grandi autori greci a memoria, conosceva circa sette lingue e tra queste c’erano anche l’egizio, il latino e naturalmente il greco.
Tra i suoi uomini ci sono nomi come Cesare e Marco Antonio, personalità di grande spessore, che non solo condizionarono il tempo in cui hanno vissuto, ma anche la nostra modernità. Cleopatra sposò prima Tolomeo XIII per regnare sul trono d’Egitto dopo la morte di suo padre, quando poi cercò di deporla dal trono, Cleopatra scappò per radunare un esercito. Questa situazione creò naturalmente una guerra civile, che venne placata solo dall'intervento di Cesare, il quale li convocò entrambi ad Alessandria, ma poiché su Cleopatra esisteva una taglia, la regina preoccupata per la sua sorte, chiese al fedele Apollodoro di trasportarla fin da Cesare chiusa al sicuro in un tappeto. Si narra che questo stratagemma colpì così tanto il conquistatore romano che i due diventarono amanti la notte stessa. Arrivata ormai ad Alessandria e con il sostegno di Cesare garantito dalla loro relazione, Cleopatra abbandonò ogni paura sposando un altro fratello, Tolomeo XIV.
Cesare era arrivato in Egitto inseguendo Pompeo, il quale aveva dichiarato il conquistatore nemico della patria, in seguito alla campagna in Gallia. Cesare fu costretto perciò a tornare in Italia, i suoi nemici difatti tentavano di rovinarlo politicamente, però egli non si perse d’animo e ordinò una marcia forzata, attraversò il Rubicone e piombò a Roma, quando ormai i suoi avversari erano già fuggiti. Naturalmente la caccia a Pompeo gli aveva creato altri rivali, e il disfacimento interno dell'Egitto lo costrinsero a rimanere nella terra del Nilo per alcuni anni, nei quali intrecciò una lunga storia con Cleopatra, per poi ripartire alla volta di Roma. Dalla loro relazione nacque un figlio, Tolomeo Cesare, che venne ribattezzato con il vezzeggiativo di Cesarione. Questo bambino aveva una forte importanza per il popolo egizio, poiché garantiva l’aiuto romano attraverso il legame di sangue con il padre. Purtroppo, nel 44 a.C., Giulio Cesare venne assassinato e Cleopatra, che si trovava a Roma da due anni, fu costretta ancora una volta alla fuga. La morte di Cesare non solo significava la fine di un sentimento, ma anche la fine di un sogno. Difatti ambedue avevano fatto loro la visione di Alessandro Magno: un impero unito da Occidente a Oriente, dalle colonne d’Ercole all’India.
Gli anni che seguirono la morte di Cesare furono contraddistinti dalla guerra di Marco Antonio e Ottaviano contro i cesaricidi , che vennero inseguiti e uccisi fino all’ultimo. Alcuni autori antichi, tra cui Plutarco, raccontano dei vari sogni che Bruto fece a proposito di un fantasma che lo terrorizzava. In un'occasione in particolare, Bruto, facendosi coraggio chiese allo spettro chi fosse e cosa volesse da lui, e lo spirito rispose:

"Ci rivedremo a Filippi"

Durante la notte che precedette la battaglia di Filippi, Bruto tornò a sognare questo cupo fantasma. Ormai sconfitto dall'esercito di Marco Antonio e di Ottaviano, decise di togliersi la vita, e mentre era in procinto di uccidersi, rispose a chi lo esortava a fuggire:

"Fuga sì, ma questa volta con le mani, non con i piedi”

Lo spettro, forse quello di Cesare, aveva dunque ragione: In seguito alla battaglia Bruto non fu l'unico che si tolse la vita, Casca, che era stato il primo a trafiggere Cesare, si uccise e così anche Gaio Cassio, che si pugnalò con la stessa daga che aveva adoperato contro il "dittatore".
Questa ennesima guerra civile durò molti anni e portò di nuovo Roma sull'orlo dell’instabilità politica, a tal punto Marco Antonio e Ottaviano strinsero un accordo che prevedeva anche la presenza di un terzo uomo: Marco Emilio Lepido, un generale che era rimasto a guardia di Roma durante le battaglie contro le forze repubblicane . Tale contratto è ricordato come il Secondo Triumvirato  e prevedeva l’assegnazione dell’Oriente ad Antonio, l’Africa a Lepido e i restanti territori, inclusa Roma, a Ottaviano. Per suggellare tale patto Ottaviano propose ad Antonio di sposare sua sorella Ottavia, e ovviamente il generale accettò. Il problema era che tempo addietro Marco Antonio, durante una spedizione contro la Giudea, chiese a Cleopatra di incontrarlo a Tarso e da quel momento in poi erano divenuti amanti. Quindi il nuovo matrimonio di Antonio fece infuriare la fascinosa regina. Passata la tempesta Cleopatra diede tre figli al condottiero romano: Elios, Selene e Tolomeo. Purtroppo la presenza di Antonio in Egitto e il matrimonio che ne susseguì crearono non pochi dissensi a Roma. Infatti Ottaviano era da sempre alla ricerca di un motivo per dichiarare guerra ad Antonio, ottenendo così l’intero controllo del territorio romano. Quando furono consegnate le ultime volontà del condottiero, che contemplavano non solo il desiderio che i figli avuti da Cleopatra ereditassero i suoi diritti, ma anche il proposito di essere sepolto in Egitto, Ottaviano ebbe finalmente in pugno l’arma che tanto cercava. Rese pubblico il contenuto del testamento di Antonio e dichiarò guerra all’Egitto e a Cleopatra, ma non ad Antonio stesso, che era ancora molto amato a Roma, e visto che quella era la prova che la sua mente era stata annebbiata dalla meretrice egizia, bisognava appunto salvarlo dalle sue grinfie. Difatti è questo il motivo per cui ancora oggi Cleopatra è considerata una donna lussuriosa, ingorda e malvagia, perché Ottaviano, con l’aiuto del suo leale compare Mecenate, mise in scena una vera e propria campagna di denigrazione ai danni della regina, e nonostante siano passati duemila anni, è ancora oggi potente come all’epoca. La guerra tra Ottaviano e i due amanti si concluse con la battaglia di Azio, dove le forze egizie furono spazzate via da quelle del nuovo dittatore. In seguito alla battaglia Ottaviano invase l’Egitto e arrivò fino ad Alessandria. Non avendo scampo Antonio si tolse la vita, e così fece anche Cleopatra.

La Morte

Tutti noi abbiamo sentito parlare di come si uccise l’ultima sovrana d’Egitto, poiché la sua morte segnò anche la fine del regno faraonico. La leggenda vuole che Cleopatra si sia suicidata con il morso di un aspide, che nascosto dentro ad un cesto di fichi, decretò l’ultimo respiro della regina macedone. Tuttavia sono molte le cose che fanno pensare che l’animale usato per darle la morte fosse stato in realtà un cobra. Infatti  questo serpente è da sempre legato alla regalità egizia e agli dei stessi.


Articolo tratto dal libro Oltre il Gineceo di Antonietta G. Napoli

mercoledì 15 agosto 2018

L'Egitto di Erodoto

Storico, geografo, osservatore dei costumi e viaggiatore infaticabile, Erodoto fu il primo a descrivere la civiltà egizia. I suoi resoconti sono giunti fino a noi, ma vanno interpretati con una certa cautela: anche se involontariamente, infatti, l'autore non poté fare a meno di incappare in qualche inesattezza e approssimazione.



Secondo Cicerone, Erodoto fu "il padre della Storia". Nella sua immensa opera, raccolta appunto sotto il titolo di Storie, questo autore greco riunì tutto quello che gli riuscì di vedere, ascoltare e annotare durante i suoi numerosi viaggi compiuti in tutto il mondo antico. Di lui si sa ben poco: nata ad Alicarnasso tra il 485 e il 480 a.C. da una famiglia benestante, verso il 460 partecipò a un complotto contro il tiranno della città, Ligdami. Quando il piano fallì, Erodoto fu costretto all'esilio nell'isola di Samo. Nel 445 era nuovamente ad Atene dove, insieme a spiriti illuminati come Sofocle, Euripide e Fidia, faceva parte della ristretta cerchia dei collaboratori di Pericle. Infine, verso il 443, partecipò alla creazione della colonia di Turi, dove visse una ventina d'anni e morì tra il 419 e il 413. Duecento anni dopo la sua morte, alcuni storici della cerchia di Apollodoro ripresero in mano le sue Storie e le suddivisero in nove libri, a ciascuno dei quali fu dato il nome di una musa.

L'ode a Euterpe
Il secondo libro delle Storie, interamente dedicato all'Egitto, porta il nome di Euterpe, la musa della lirica poetica e della musica. Sappiamo che Erodoto viaggiò lungo la terra del Nilo intorno al 450 a.C.: risalì il grande fiume fino a Elefantina, visitò le città del Delta e poi Menfi, Ermopoli, Chemnis e Tebe. Ispirato da Euterpe, lo storico volle trattare tutti gli aspetti della vita del paese, dalla fauna alla flora, dalle abitudini quotidiane alle tradizioni religiose, fino alle conoscenze tecniche e scientifiche del V secolo a.C. Si soffermò, inoltre, sul calendario egizio, sugli animali sacri, sui metodi di imbalsamazione, sulla leggenda di Osiride e sulle inondazioni del Nilo, descrivendo anche la piramide di Cheope e le campagne militari di Sesostri.
A dispetto della verità di argomenti, l'affidabilità di questo "reportage" sull'antico Egitto è stata messa spesso in discussione. Le fonti di Erodoto erano costituite in buona parte da resoconti orali, cioè da conversazioni intercorse con egizi di diverse classi sociali e che esercitavano mestieri di ogni tipo. L'autore intervistò anche dei commercianti greci stabilitisi in Egitto e degli egizi di origine ellenica. Ebbe così la possibilità di discutere con le persone addette all'accoglienza degli stranieri, con le guide, con i sacerdoti e con i guardiani di asini, dai quali, probabilmente, venne a conoscenza di chiacchiere, pettegolezzi e dicerie riguardanti le personalità più in vista dell'epoca. A volte, poi, Erodoto fornì diverse versioni dello stesso avvenimento: l'intento era permettere al lettore di crearsi la propria opinione, ma la cosa poteva anche generare ulteriore confusione in coloro meno avvezzi allo studio metodico. In definitiva, tra descrizioni contrastanti, imprecisioni e qualche inesattezza, sarebbe stato davvero difficile distinguere il vero dal falso se non ci fosse venuta in soccorso l'archeologia.

Gli errori di Erodoto
Di fatto, nella descrizione dell'Egitto, definito da Erodoto "un dono del Nilo", si alternano dettagli molto precisi ma anche notevoli approssimazioni. L'autore, per esempio, calcolò correttamente le distanze tra Eliopoli, Tebe ed Elefantina, ma fornì informazioni non sempre vere sulla piramide di Cheope: in primo luogo, riportò misure errate; inoltre, scrisse che la camera funeraria del faraone era situata al centro del monumento, come effettivamente è, ma aggiunse che la stessa era circondata dall'acqua, cosa che non corrisponde alla realtà. Anche la descrizione dell'ippopotamo era piuttosto confusa: secondo Erodoto, questo animale aveva una criniera simile a quella del cavallo. Più precise invece erano le notizie sui periodo storici a lui più vicini, riguardanti per esempio la XXVI dinastia o il faraone Shabaka.
Una delle maggiori fonti di confusione per gli studiosi che hanno lavorato sui testi di Erodoto deriva da una vera e propria mania dello storico: adattare in greco i nomi egizi, a cominciare da quelli dei sovrani, abitudine che utilizzò anche con le divinità, così, la dea Bastet divenne Artemide e Thot diventò Ermes.



Una singolare cronologia
Proprio nel trattare la vita di alcuni faraoni e la cronologia dei loro regni, però, Erodoto si dimostrò quanto mai impreciso: più gli avvenimenti narrati erano lontani nel tempo, più i dati diventavano incerti. La sua cronologia dei monarchi delle prime dinastie ha dato non pochi grattacapi a noi egittologi, che ci siamo trovati di fronte a un vero rebus. La sequenza temporale, in particolare, è piuttosto disordinata, e un esempio su tutti può dimostrarlo: nella versione di Erodoto, Cheope, faraone della IV dinastia, è collocato dopo Ramses III, re della XX dinastia. A creare ulteriore confusione, come si è detto, contribuì la smania di Erodoto di tradurre in greco i nomi egizi: non è dato sapere, per esempio, se un certo faraone chiamato Rampsinite fosse in realtà Ramses III o il suo predecessore. E il nome Min si riferisca al re Menes della cronologia di Manetone? Non mancò, poi, l'aggiunta di informazioni dubbie o difficilmente verificabili, come quella relativa a una spedizione di Sesostri nella lontana Colchide (la terra di Medea e del Vello d'oro), sul mar Nero: un avvenimento mai riscontrato dagli archeologi. Altrettanto dubbia è l'enumerazione dei faraoni etiopi: secondo Erodoto furono diciotto, ma ufficialmente se ne conoscono solo cinque.

La parola alla difesa

Erodoto cercò di racchiudere in un solo libro tremila anni di storia dell'antico Egitto. A sua disposizione, però, aveva solo testimonianze verbali, che egli completò con le sue osservazioni personali. Fino a quel momento, infatti, non esistevano altre opere dedicate alla civiltà egizia. Erodoto, inoltre, visitò molte città, ma non si fermò mai troppo a lungo nello stesso posto; soprattutto, non conosceva la lingua locale né era in grado di interpretare i geroglifici. In simili condizioni, il suo immenso lavoro rimane comunque prezioso. Nonostante le imprecisioni, lo storico greco ebbe infatti il merito di fornire un'inedita descrizione del paese, animata per di più da curiosità ed entusiasmo degni di un moderno reporter. Se si considerano i mezzi che aveva a disposizione, non avremmo potuto chiedergli di più. La sua opera, perciò, rimane una miniera di informazioni, cui va riconosciuta se non altro la volontà di dimostrarsi utile alla conoscenza dell'affascinante terra delle piramidi. 

mercoledì 25 ottobre 2017

Di cosa è morto Alessandro Magno?

Della vita di Alessandro si conoscono gli alti e i bassi, i gusti, i retroscena: la grande carica di cavalleria a Gaugamela che spazzò via l'esercito persiano, l'amore per Efestione e la sua sconfinata generosità che era pari solo all'immensa ira che covava nei confronti di coloro che lo tradivano. Alessandro il grande è una figura che non costituisce un enigma ed è solo la sua morte che cela un segreto millenario: l'ubicazione della sua tomba.
Alessandro nacque a Pella, nel nord della Grecia, il 20 luglio del 356 a.C., da suo padre Filippo discende, secondo la leggenda, da Ercole, da sua madre Olimpiade discende da Achille. Aristotele fu il suo maestro, Bucefalo il suo cavallo leggendario: a 20 anni diventa re, a 25 invade l'Egitto e diventa faraone, a 26 anni decide di conquistare l'India e gettare così nuovi confini alle terre conosciute, un'impresa che sembra sovrumana già a chi lo venera come un dio. A soli 32 anni, un mese prima del suo compleanno, Alessandro muore a Babilonia.
Molte sono le teorie legate alla sua morte, c'è chi sospetta che venne avvelenato, chi ipotizza che morì di malaria e così altre decine di teorie, ma procediamo con calma e cerchiamo di ricostruire il quadro medico.


A parte le numerose ferite agli arti riportate in battaglia, un anno prima della sua morte aveva sofferto di un trauma penetrante all'emitorace destro, complicato da emopneumotorace. Non fumava tabacco (arrivato in Europa solo dopo il 1500), ma si concedeva abbondanti ancorché saltuarie libagioni divino: la sindrome che lo avrebbe portato a morte iniziò a manifestarsi — con astenia intensa e dolori diffusi a tutto il corpo — proprio il giorno successivo a una notte di baldoria, generosamente annaffiata con 12 pinte di vino. E la sera dopo, consumata un'analoga quantità d'alcool, Alessandro aveva lamentato dolori lancinanti al quadrante addominale superiore destro.
Nei giorni seguenti, il quadro clinico era stato dominato dalla febbre e da un progressivo deterioramento delle condizioni generali. Soprattutto, l'astenia era peggiorata rapidamente, al punto che già all'ottavo giorno di malattia il paziente non era più in grado di parlare e riusciva a malapena a muovere occhi e mani. L'undicesimo giorno, il grande condottiero entrò in coma e spirò. Malaria acuta, pancreatite, perforazione intestinale da infezione tifoidea con paralisi ascendente, poliomielite, intossicazione acuta da piombo e persino avvelenamento da arsenico (nel vino): queste e altre ancora le ipotesi avanzate dagli storici per giustificare il rapido e inarrestabile declino del pur giovane e vigoroso comandante. A uccidere il condottiero macedone sarebbe stata, secondo la mia opinione, la febbre del Nilo occidentale: una sindrome virale (causata dal cosiddetto «West Nile virus») che non era stata presa in considerazione nella rassegna pubblicata nel 1998 sul «New England Journal of Medicine», in mancanza di una precisa collocazione nosografica. Alla mia personale interpretazione, si aggiunge quella del Dr. John S. Marr epidemiologo del Virginia Department of Health, che si era già occupato delle dieci piaghe d'Egitto e della morte dell'ultimo imperatore degli Inca, Hayna Capac; mentre è al Dr. Calisher - qualificato microbiologo della Colorado State University - che si deve presumibilmente l'indagine diagnostica che ha potuto escludere le diverse ipotesi infettivologiche di volta in volta considerate responsabili della morte di Alessandro. E prima di ogni altra il presunto avvelenamento del re macedone: «Solo pochi veleni - scrivono infatti Marr e Calisher - erano disponibili ai tempi di Alessandro, tra cui salicilati, alcaloidi e micotossine, e nessuno di essi avrebbe potuto causare una febbre così elevata».
Sappiamo dunque che Alessandro morì nella tarda primavera del 323 a.C., nell'area dell'attuale città di Baghdad, in Iraq, a causa di una malattia durata due settimane e caratterizzata da febbre e segni che supponiamo indicativi di una forma encefalitica. Nelle precedenti ipotesi diagnostiche l'encefalite da West Nile virus non era invece stata inclusa. Forse perché, avendo il virus fatto la sua comparsa negli Stati Uniti solo nel 1999, prima di allora nessuno aveva fatto caso a un episodio - accuratamente riportato da Plutarco - riguardante il comportamento bizzarro e la morte di numerosi corvi fuori dalle mura di Babilonia. Alla luce di questa e altre osservazioni, ritengo che si possa oggi proporre una valida interpretazione diagnostica per la morte di Alessandro: un'encefalite provocata dal virus West Nile e complicata da una paralisi flaccida, cioè con perdita del tono muscolare. Il virus del Nilo occidentale (che come altri flavivirus si trasmette all'uomo attraverso le punture di un insetto) è stato isolato per la prima volta in Uganda nel 1937, ma i primi casi della malattia umana sono stati descritti negli Stati Uniti solo tra il 1999 e il 2000. Nel 2002 si contavano 4156 contagiati americani, e 284 vittime; nel 2003 il numero degli infetti negli Stati Uniti è salito a 8694, fortunatamente senza un parallelo aumento dei decessi. Nel Colorado, dove l'epidemia del 2003 ha colpito 2945 persone, nel 79 per cento dei casi la febbre del Nilo occidentale si è manifestata nella forma più lieve, con febbre e spossatezza. Ma è ormai risaputo che l'infezione può avere un decorso assai più severo, causando encefalite o una paralisi flaccida acuta che ricorda la poliomielite.
L'enigma scientifico relativo agli ultimi giorni di vita di Alessandro è stato seguito fin dagli esordi, con passione e competenza anche da Donato Fumarola, già professore di microbiologia medica all'Università di Bari: «La febbre del Nilo occidentale - spiega Fumarola - è una malattia infettiva emergente e ubiquitaria (è infatti presente negli Stati Uniti e in Canada, in Europa e in Africa settentrionale, così come in Asia Minore) che può colpire con una forma neurologica, una grave encefalite, spesso letale sia per gli animali che per l'uomo». Sensibili all'azione del virus del Nilo appaiono sia gli animali selvatici che quelli domestici e da reddito, e tra questi ultimi soprattutto i cavalli. Qual è dunque il nesso tra questo agente virale e la misteriosa malattia che portò alla morte Alessandro Magno? Fumarola ci aiuta a comporre le tessere del puzzle: «Come serbatoio del virus funziona sia l'animale sano (o asintomatico) sia quello ammalato; come vettore, invece le più varie specie di zanzare Culex. In questi ultimi anni, però, il serbatoio più significativo è rappresentato dai volatili: in particolare dai corvi, le cui morie da virus del Nilo occidentale sono state ampiamente segnalate in letteratura». Si tratta in pratica di un virus che può passare dagli uccelli alle zanzare, e da queste all'uomo. Quando infatti le zanzare infettate dal virus pungono un vertebrato suscettibile, il virus può essere trasmesso a quest'ultimo. Gli uccelli funzionano da ospiti «amplificatori» e il grado di amplificazione dipende dalla specie aviaria, da condizioni ambientali e da altri fattori. Sono i volatili in fase viremica a rifornire le zanzare di pasti a base di sangue infetto, e queste ultime provvedono successivamente a trasferire l'infezione da West Nile virus agli uomini. Gli uccelli ammalati manifestano sintomi diversi, tra i quali tremore, posture anomale, disorientamento, e anomalie del comportamento; e finiscono spesso per soccombere alla malattia.
Il riferimento ai corvi emerge con chiarezza dalla lettura del volume di Plutarco sulla vita di Alessandro: Il grande storico greco racconta che Alessandro il Grande, rientrato dall'India e giunto presso le mura di Babilonia, s'imbattè in uno stormo di corvi che, lottando fra di loro, si beccavano furiosamente. Molti caddero morti ai piedi del re, che - pur rassicurato dai suoi indovini - ne trasse severi auspici. E ripetuti, si ritrovano nell'opera di Plutarco, altri riferimenti agli incontri ravvicinati tra Alessandro e gli uccelli - specialmente i corvi. Quanto agli insetti, diverse sono le specie di Culex coinvolte in Iraq nella trasmissione dell'infezione da West Nile virus. Le inondazioni primaverili del Tigri e dell'Eufrate forniscono un ideale substrato riproduttivo per le zanzare, delle quali è ben nota la predilezione per le zone paludose. Ma è stato soprattutto il quadro clinico del morbo che stroncò la giovane vita del condottiero macedone, e che si evince dall'analisi attenta del testo di Plutarco, a convincere Marr e Calisher. Premesso che l'ipotesi dell'avvelenamento, pratica abbastanza comune a quei tempi, gode di scarsissimo credito da parte dello stesso Plutarco (anche perché Alessandro era in realtà meno dedito al vino di quanto potesse apparire), la sintomatologia presentata dal condottiero nei suoi ultimi giorni di vita fu tale da suggerire agli studiosi contemporanei l'idea che potesse aver contratto la forma encefalitica della febbre del Nilo: l'esordio della malattia, la febbre violenta e costante, la grande sete e il delirio finale, insieme con l'impossibilità di muoversi e di mantenere la stazione eretta (una vera e propria paralisi flaccida). La critica più fondata che si può muovere a quest'ipotesi è legata alla stagionalità dell'infezione da virus «West Nile» nell'uomo. Alessandro, infatti, si ammalò in maggio, mentre per esempio la maggior parte dei casi registrati nell'epidemia verificatasi nel 2000 in Israele - paese che si trova alla stessa latitudine dell'Iraq - si sono avuti da luglio a settembre (e pochi altri in giugno). La maggiore amplificazione del virus, nelle zanzare e negli uccelli suscettibili, si raggiungerebbe solo alle temperature che caratterizzano l'estate piena. Ma la temperatura media in Iraq in maggio è di 29 gradi - più elevata di quella che si riscontra nello stesso periodo a Tel Aviv (24 gradi) - e dunque una primavera più calda del solito in Iraq nel 323 a.C. potrebbe essersi rivelata fatale ad Alessandro, determinando un più precoce inizio della replicazione virale nei corvi, e un'inspiegabile mortalità in quei volatili. A quei tempi gli oracoli erano attenti osservatori del comportamento degli uccelli, e Plutarco ritenne di dover riferire quel bizzarro episodio capitato al re macedone al suo ingresso a Babilonia. Né sorprende che un tale evento nel 323 a.C. possa essere stato considerato come un presagio della fine imminente e prematura del condottiero. La sua morte continua ancor oggi a richiamare l'interesse degli storici, ed è probabile che anche un'ipotesi diagnostica aggiornata e ben strutturata, come quella sostenuta da me e da Marr e Calisher, venga in futuro rimessa in discussione: appare tuttavia ben difficile, a più di 2300 anni dai fatti, che si riesca a trovare un testimone più attendibile di Plutarco.
Dopo la sua morte, i generali di Alessandro getteranno il mondo in una serie infinita di guerre che avevano come unico scopo quello di accaparrarsi non solo il suo regno ma anche il corpo del condottiero. Tolomeo, Seleuco, Cassandro, Cratero e tutti gli altri erano ben consapevoli, che chiunque fosse entrato in possesso delle spoglie del condottiero macedone, sarebbe sembrato agl'occhi della storia l'erede legittimo. Infine fu Tolomeo, amico fidato del re, ad ottenere le spoglie del sovrano.

giovedì 1 giugno 2017

L'enigma del faro di Alessandria

Settima meraviglia del mondo il faro di Alessandria è il simbolo del genio della civiltà greca trapiantato in Egitto. Tra mito e realtà, la sua storia non ha mai finito di affascinare gli uomini. I resti di questo colosso giacciono in fondo al mare e solo qualche frammento ritrovato recentemente ha permesso di svelare parte del suo mistero.


Nel 332 a.C., Alessandro Magno liberò gli egizi dalla dominazione persiana e fondò sulla foce del Nilo a magnifica città di Alessandria. I lavori di costruzione del faro cominciarono verosimilmente solo nel 297 a.C., e si conclusero nel 283 a.C., all'inizio del regno di Tolomeo II. La costruzione, quindi, sarebbe durata circa quindici anni, un periodo di tempo molto breve per un'impresa così grandiosa: testimonianza, questa, dell'efficienza degli ingegneri e delle enormi risorse finanziarie investite in quest'opera. Si pensa che nella realizzazione di questo immenso cantiere gli architetti greci siano stati affiancati dagli artigiani egizi, forti di un'esperienza accumulatasi in tremila anni. L'obiettivo principale che portò alla costruzione di questa colossale torre era quello di edificare un'opera monumentale che riuscisse a colpire l'immaginazione e aumentare il prestigio della città. Lo stesso valeva per altri monumenti di Alessandria, come la Grande Biblioteca. Ma il faro corrispondeva anche a una necessità vitale: guidare i navigatori mettendoli al riparo dai pericoli presentati dalle zone costiere e dai numerosi scogli. Infatti, all'epoca, il commercio marittimo era in pieno sviluppo e, se ci si attiene al numero di relitti di navi greche e romane scoperti recentemente, la barriera rocciosa che si estendeva parallelamente alla costa doveva aver causato il naufragio di non poche navi.

Dove si trovava il faro di Alessandria?
Secondo fonti antiche, il faro sarebbe stato costruito sulla punta orientale dell'isola di Pharos, vicino alle rive della città di Alessandria, formando una penisola collegata al continente dell'isola di Pharos, vicino alle rive della città di Alessandria, formando una penisola collegata al continente da un pontile. Oggi, risulta molto difficile ricostruire esattamente l'aspetto della zona, perché dall'antichità la città di Alessandria è sprofondata di diversi metri rispetto al livello del mare; incolte, la regione è stata devastata da una serie di terremoti, tra il IV e il XIV secolo d.C.: In particolare, nel 1303 un terremoto e un maremoto rasero al suolo una parte della città. Alla fine del XV secolo, il sultano mamelucco Qaitbay costruì una fortezza nel luogo in cui si trovava il faro, riutilizzandone in parte i blocchi di pietra.

Che aspetto aveva il faro?
Probabilmente, il faro di Alessandria era costruito con pietre bianche: si trattava di blocchi ricavati dalla roccia calcarea locale, e non di marmo, come sostengono alcune fonti. Le pietre, provenienti dalla costa settentrionale, non sono servite solo alla costruzione della città antica, ma anche a quella della fortezza di Qaitbay e della moderna città di Alessandria. Il colore bianco, reso più intenso dalle tecniche di levigatura dell'epoca, conferiva uno splendore particolare al faro. Recenti ritrovamenti nei fondali della zona, tuttavia, rivelano che alcuni blocchi di pietra sarebbero stati troppo voluminosi per essere ricavati dalla pietra calcarea; sarebbero derivati, invece, da blocchi di granito di Assuan, e lo stesso vale per alcune giunzioni dell'edificio e per le cornici di porte e finestre. Mettendo a confronto tutte le fonti scritte e le diverse illustrazioni del faro, i ricercatori hanno potuto ricostruire oggi l'aspetto dell'edificio: la torre sarebbe stata alta 135 metri e composta da tre piani, il primo di forma quadrata, il secondo a base ottagonale e il terzo cilindrico. Una rampa, sorretta da sedici archi, permetteva l'accesso al primo piano, che posava su una piattaforma quadrangolare, leggermente piramidale, di una decina di metri di lato. Secondo la descrizione del celebre geografo arabo al-Andalusi, vissuto nel XII secolo, il primo piano sarebbe stato alto 71 metri e largo una trentina e avrebbe avuto una rampa interna per permettere l'accesso al secondo piano. L'ampiezza degli spazi era forse dovuta alla necessità di permettere il passaggio di animali da soma che portavano in cima all'edificio il combustibile necessario ad alimentare il fuoco del faro. Il secondo piano misurava 34 metri di altezza ed era dotato di una scala di 32 gradini che portava al terzo piano. Quest'ultimo, di forma cilindrica, era probabilmente il meno alto, solo 9 metri. La cima era sormontata da una lanterna, a sua volta decorata con una statua di Zeus o di Poseidone, secondo quanto affermato da fonti diverse. Distrutta da un terremoto nel X secolo, la parte superiore della torre fu più tardi convertita in stanza di preghiera dal sultano Ahmed Ibn Tulun: divenne così la moschea più alta del mondo.

Le ricerche sottomarine
Nel 1962, il sommozzatore egiziano Kamal Abu el Saadat convinse la marina egiziana a riportare in superficie una statua colossale raffigurante Iside, probabilmente posta su un lato del faro. Nonostante questa scoperta, non furono effettuate altre ricerche- Solo nel 1994 il dipartimento archeologico egiziano chiese al Centro di studi alessandrini di effettuare delle ricerche subacquee tra le rovine sommerse della fortezza di Qaitbay. L'impresa, tra l'altro, ha ricevuto un notevole impulso grazie alla campagna di informazione organizzata dal cineasta egiziano Asma el-Bakri. L'esistenza  di reperti antichi in quei luoghi era già nota almeno dal XVIII secolo, ma la forte espansione che la città conobbe nei secoli successivi scoraggiò gli archeologi, i quali preferirono dedicarsi ai siti faraonici. Grazie al finanziamento di alcuni sponsor, come il gruppo Elf-Aquitania e la fondazione EDF, gli scavi cominciarono sotto la direzione di Jean-Yves Empereur. L'estrazione di circa 2000 pezzi appartenenti a epoche diverse (faraonica, ellenica e romana) fu intrapresa scegliendo tra i quasi tremila blocchi architettonici mescolati nei fondali marini. Alcuni di questi erano stati buttati in mare volontariamente alla fine del'epoca romana, ai tempi dei mamelucchi, per proteggere il porto di Alessandria. Tramite un sistema di palloni gonfiati d'aria, furono riportati in superficie, tra l'altro, n busto di Tolomeo dai tratti faraonici, basi di colonne e parti di sfingi, alcune delle quali pesavano fino a 70 tonnellate. Si pensa che alcuni pezzi siano più antichi della fondazione della città d'Alessandria e risalirebbero all'epoca di Ramses II. Ad oggi, tuttavia, quanto è emerso dalle ricerche non permette ancora di ricostruire il faro nel suo aspetto originale. Lo studio dei pezzi catalogati è un lavoro che richiede temo: bisognerà aspettare ancora molti anni prima che i misteri della settima meraviglia del mondo siano completamente svelati. 

venerdì 25 novembre 2016

Il faro di Alessandria

Su un isolotto a est dell'Isola di Pharos, in una posizione che permetteva di dominare l'ingresso al grande porto, si ergeva un tempo una delle sette meraviglie del mondo antico, il Faro di Alessandria. Del vero e proprio faro non abbiamo più, come è noto, alcuna traccia: una serie di terremoti, verificatisi tra il X e il XIV secolo, lo hanno completamente distrutto. Inoltre, nel 1480 il sultano mammalucco Kait Bey fece erigere, al suo posto, un castello, che si può ammirare ancora oggi. Alto dai 120 ai 140 metri, il faro era interamente in pietra bianca, verosimilmente in calcare: per la sua costruzione furono stanziati ben 800 talenti, una cifra equivalente a circa 20.800 chilogrammi d'argento. L'edificio, cui si accadeva da una rampa, era a più piani: a una base quadrangolare, di circa 71 metri di altezza, seguiva una struttura ottagonale (alta circa 34 metri),  sua volta seguita da un corpo tondo con una copertura a tholos (termine che indica una volta realizzata a blocchi aggettanti), in cima alla quale era posta, forse, una statua di Zeus. Tutto l'edificio sorgeva poi al centro di un ampio terrazzamento rettangolare, munito di torri difensive e di frangiflutti e ostruito a sua volta al di sopra di una grande cisterna. In cima al faro, infine, ardeva un fuoco, che poteva essere visto da una distanza lontanissima: non sappiamo esattamente come questa fonte di luce fosse amplificata o se venisse in qualche modo indirizzata in una particolare direzione: non è escluso che si facesse uso di specchi concavi. Altrettanto incerti sono i dati circa l'anno esatto della costruzione del faro nonché chi sia stato l'architetto o il promotore del monumento: Strabone menziona un certo Sostrato di Cnido, "amico del re", che avrebbe eretto il faro "per il bene e la sicurezza di tutti coloro che navigavano il mare". Secondo Plinio, Sostrato era il costruttore, mentre il committente sarebbe stato un re tolemaico. Una fonte del X secolo riferisce che il faro fu costruito nell'anno 297 a.C., mentre la notizia diffusa da Ammiano Marcellino, che il famoso monumento fosse opera della regina Cleopatra, deve essere considerata solo una delle tante leggende nate intorno all'ultima regina dei Tolomei.

lunedì 18 aprile 2016

La necropoli di Tuna el Gebel: le tombe di Petosiris e Isadora

Poco alla volta, anche il Medio Egitto comincia ad attirare il turismo di massa. In questa zona si trova la necropoli di Tuna El-Gebel: tra i tanti tesori in essa rinvenuti, spiccano la tomba di Isadora e il monumento funebre di Petosiris, con i loro bassorilievi ispirati a scene di vita quotidiana e religiosa.



L'antica necropoli di Tuna El-Gebel, un nome che al grande pubblico suona quasi sconosciuto, è situata in una regione che, al momento, non rientra nei classici circuiti turistici. Per molto tempo, infatti, tutto il Medio Egitto, è stato abbastanza trascurato, a vantaggio di altre mete archeologiche più rinomate. Un po' alla volta, però, anche questa parte del paese sta attirando l'attenzione dei turisti, cominciando a svelare i suoi tesori; con il vantaggio di trovarsi lontano dalle zone tradizionalmente invase dai visitatori.

La sfortunata Isadora
Anticamente, Tuna era la necropoli di Ermopoli Magna, la città del dio Thot. La parte più importante del sito archeologico, quindi, consiste nel ricco complesso funerario. Qui si trova la tomba di una fanciulla di nome Isadora, vissuta nel II secolo d.C. Col passare del tempo la sua vicenda personale si è trasformata in una specie di leggenda che ancor oggi gli egiziani tramandano di padre e figlio. Innamorata di un giovane contro la volontà paterna, Isadora cercò di attraversare il Nilo per raggiungerlo a bordo di una barca, ma morì lungo il tragitto. Poiché il padre si rifiutò di pagare le esequie, fu il giovane amante a farsene carico: dovendosi procurare i soldi necessari, però, dovette vendersi come schiavo. Oggi, la tomba ospita la mummia di Isadora e un'iscrizione che paragona la defunta a una dea.

La perla di Tuna
Il fiore all'occhiello del sito è la stupefacente sepoltura di Petosiris, nome che significa "il dono di Osiride". Il defunto era un sacerdote vissuto tra la fine della seconda dominazione persiana e l'inizio dell'Epoca Tolemaica; sul suo conto si è potuto stabilire che si trattava dell'amministratore del locale tempio di Thot. La sua tomba riflette la volontà di esaltare le gesta di questo sacerdote, che si fece raffigurare nell'atto di porgere alcune offerte agli dei: un compito, questo, che in teoria spettava solamente al faraone. Dopo la sua morte la figura di Petosiris divenne oggetto di un vero e proprio culto, attirando moltitudini di pellegrini. Oggi, del suo monumento funebre rimangono solo un vialetto, un cortile, un altare dai lati triangolari e la tomba. Questa ha la struttura di un tempio, con i muri scolpiti, un elegante colonnato e dei bei bassorilievi sulla facciata. All'interno, in una cappella sorretta da quattro colonne, un posso permette di accedere alla tomba. In questa sala sono stati ritrovati numerosi sarcofagi.

Mestieri e animali
Tra i temi utilizzati per le decorazioni della tomba di Petosiris, spiccano quelli ispirati ai mestieri e agli animali. Diversi bassorilievi raffigurano scene di artigiani al lavoro, come orefici, profumieri e falegnami. In ossequio alla grande attenzione che gli egizi riservavano al lavoro agricolo, poi, ecco le rappresentazioni della vendemmia, della semina, dell'aratura e della mietitura del grano. Ampio spazio è dedicato anche agli animali. Oltre alle scene di pastorizia, vi è un bassorilievo che raffigura una vacca che sta partorendo; in un'altra immagine scolpita, invece, lo stesso animale volge teneramente la testa contro il vitellino mentre si accinge ad allattarlo.

Le influenze artistiche
I personaggi dei bassorilievi della tomba di Petosiris sono raffigurati con grande realismo e molta cura dei particolari: ripresi nel pieno delle loro azioni, mentre compiono i loro gesti quotidiani, colpiscono l'attenzione dei visitatori suscitando anche una certa emozione. Un esame accurato di questi bassorilievi ha permesso di rilevare elementi che tradiscono un'influenza greca: alcuni personaggi hanno un aspetto efebico, altri sono barbuti, altri ancora sono raffigurati di profilo o completamente nudi.

La famiglia di Petosiris

Le decorazioni della tomba di Petosiris sono divise in due sezioni: la parte sinistra della tomba è dedicata al padre del sacerdote, Sishu, quella destra al frtello Zedthotefankh. Sulla parete in fondo si scorgono i defunti seduti davanti a Osiride, Iside e Nefti; più in basso, si può ammirare una bellissima composizione: Nekhbet, con la testa di avvoltoio e la corona bianca, e Uadjet, la dea dalla testa di cobra, fanno vento con le ali a uno scarabeo, che giace su un fregio serekh (1) ed è cinto con la corona atef (2). Il gesto delle due divinità ha un significato simbolico preciso: corrisponde, infatti, al "dare la vita".



Note:
(2) L'Atef era la corona più usata dalle divinità ed era il simbolo di Osiride. Per l'immagine: clicca qui.

mercoledì 20 gennaio 2016

L'Egitto: una provincia romana

La conquista del regno tolemaico da parte dei Romani coincise con un periodo di lotta per il potere a Roma. Essendo ricco di risorse, il paese del Nilo godette di una attenzione particolare, ma, lontana dal romanizzarsi, la cultura egizia giunse a influenzare le tradizioni dei vincitori.


 La dominazione romana dell'Egitto ebbe inizio nel 30 a.C., come conseguenza della sconfitta di Marco Antonio e Cleopatra ad Azio. Questa battaglia chiuse un lungo periodo di lotte intestine. Ottaviano, il vincitore, divenne l'imperatore Augusto e, da quel momento, l'Egitto si trasformò in uno dei cardini della struttura imperiale. Esso forniva a Roma il grosso delle risorse di base, a cominciare da quelle alimentari, tanto che Augusto avocò a sé l'amministrazione del paese che divenne una provincia a parte, tenuta alla larga dalle insidie della politica ma molto apprezzata per le sue élite culturali. Questo fu, sembra, uno dei motivi che permise non solo la diffusione del cristianesimo nel paese senza grosse persecuzioni, ma anche il proliferare di forme ibride di spiritualità. Alla divisione dell'Impero seguita alla morte di Costantino (337 d.C.), l'Egitto rimase integrato nella pars orientalis e tale rimase fino alla conquista araba (642 d.C.).

L'amministrazione romana dell'Egitto si appoggiò formalmente sulla struttura amministrativa tolemaica, pur piegandola alle proprie necessità. A capo della provincia c'era un governatore, coadiuvato da funzionari responsabili della giustizia e delle finanze. Le capitali delle circa 30 regioni, o nomoi, prosperarono grazie al tipico sistema romano delle donazioni. Tuttavia, fino al III secolo esse non ebbero veri e propri organi di governo autonomo, e quando vennero introdotti era ormai troppo tardi per far fronte alla crisi economica della città. Al vertice i greci e gli ebrei che vivevano nelle grandi città e godevano di certi privilegi e per ultimi la massa indigena, sottoposta a un rigido controllo fiscale. Per molto tempo gli egizi vennero tenuti a distanza, anche se, a poco a poco, i matrimoni misti aumentarono. Come sempre, l'amministrazione traeva il grosso dell'entrate dalla tassa sui cerali. Con i Romani, l'eccedenza servì a risolvere uno dei più annosi problemi dell'Urbe: l'annona, cioè la distribuzione gratuita di grano alla plebe. Davanti all'insorgere di proteste popolari tanto violente quanto incontrollabili. Pietre preziose, smeraldi e topazi, cave di granito e porfido, e ulteriore risorse di pregio finivano invece direttamente nelle casse dello Stato.

venerdì 1 gennaio 2016

Un faraone di nome Alessandro

Dopo aver subito per quasi un secolo la dominazione dei Persiani, l'Egitto accolse Alessandro Magno come un liberatore e un vero faraone. La leggenda voleva che il giovane re macedone fosse figlio di Nectanebo II, ultimo dei sovrani egizi.
Nel 332 a.C., mentre muoveva verso l'Egitto, Alessandro trovò un ostacolo imprevisto: era la città fortificata di Gaza, capitale dei Filistei, governata per conto del re persiano Dario da un eunuco di nome Bati. Durante l'assedio, il conquistatore macedone fu ferito a una spalla, ma alla fine riuscì ad avere la meglio sulla tenace resistenza del nemico e poté dare sfogo alla sua rabbia: fece uccidere tutti gli uomini della città, che fu rasa al suolo mentre le donne e i bambini furono venduti come schivi. Lo stesso Bati fu giustiziato in modo esemplare: Alessandro gli fece bucare un tallone per infilarvi un anello di bronzo, poi lo attaccò al suo carro lanciato a tutta velocità, trascinando il corpo ancora vivo dell'avversario. A quel punto, il re macedone era pronto a mettere in pratica quanto suggeritogli dai suoi consiglieri: "Re, prima di ogni altra impresa, ricordati di compiere sulla terra di Amon l'opera che da te ci si aspetta". Si mise in marcia, dunque, verso l'Egitto. Prima, però, fece caricare su una nave una grande quantità d'incenso che aveva trovato nei magazzini di Gaza, e lo inviò in Macedonia come regalo per il suo maestro, il filosofo Aristotele.
Alessandro in realtà fu spesso un re giusto, parsimonioso e capace, tuttavia le offese e i tradimenti scatenavano in lui una rabbia senza fine. Gaza non fu di certo la sola città ad offendere il re macedone, ci sono moltissimi esempi da fare: Tiro, la morte di Clito  o l'esecuzione del compagno d'armi, Filota. Nonostante la sua rabbia, sono molti di più i casi in cui Alessandro dimostrò una compassione e un senso di giustizia unici.

L'incoronazione di Alessandro
Per raggiungere Pelusa, situata alle porte dell'Egitto, sul ramo più orientale del Nilo, Alessandro impiegò solo sette giorni. Mentre la flotta procedeva lungo le coste, il re, alla testa della sua fanteria, seguì la via terrestre, da lui nettamente preferita a quella marittima. Alla fine, la flotta e l'esercito si riunirono a Eliopoli, la città del sole, non lontano da quella piana di Giza su cui si stagliavano le monumentali piramidi. Da lì, Alessandro mosse verso Menfi. Il suo ingresso in città fu trionfale: sfiniti dalla lunga dominazione persiana, gli egizi accolsero come un liberatore l'uomo che li aveva aiutati a disfarsi del giogo straniero.
Alessandro, però, non era solo un conquistatore, ma anche un abile uomo politico e un diplomatico accorto. Conoscendo l'importanza che la religione rivestiva in Egitto, volle per prima cosa rassicurare il clero. Oltretutto, divinità come Amon, Iside e Osiride non erano affatto sconosciute ai macedoni. Per placare sul nascere ogni possibile resistenza, perciò, il nuovo re si esibì in un gesto carico di significato religioso, assistendo al sacrificio del toro Apis. A quel punto, i sacerdoti fecero annunciare che il nuovo faraone, tanto atteso dopo quasi un secolo di dominazione straniera e dieci anni di trono vacante, era finalmente arrivato. Nel giorno stabilito, Alessandro fu incoronato re d'Egitto.
La cerimonia si svolse alla presenza delle sole persone autorizzate a entrare nel tempio di Ptah, il dio che presiedeva a ogni attività umana. Il gran sacerdote, assistito dai suoi numerosi servitori, spogliò Alessandro dei suoi abiti e lo fece ungere d'olio sacro nelle parti del corpo da cui si sprigionano la forza, l'intelligenza e la volontà. Poi, il nuovo faraone fu rivestito con abiti regali e ornamenti sacri, e invitato a sedersi sul trono di Ptah. A questo punto, indossò in successione tutte le corone che dovevano conferirgli la piena maestà: prima quella di Horus, poi quella di Amon-Ra adornata dal disco solare, e di seguito la corona bianca dell'Alto Egitto e quella rossa del Basso Egitto. Infine, sul capo del sovrano fu deposta la tiara reale che riuniva le due precedenti. Quando Alessandro ebbe in mano lo scettro e la croce della vita, attributi della sua regalità, un forte profumo d'incenso si sparse nel tempio. Intanto, i sacerdoti pronunciavano ad alta voce i nomi del faraone, gli stessi che sarebbero stati colpiti per l'eternità sulla pietra dei templi e di tutti gli edifici eretti durante il suo regno: "Re sparviero, principe della vittoria, re del giunco e dell'ape, amato da Amon, eletto dal dio sole, Alessandro, Signore del Doppio Paese e Signore della gloria, dotato di vita per sempre come il dio sole per il tempo infinito".


Alessandro figlio di Nectanebo II?
Uno dei motivi per cui gli egizi accolsero Alessandro con tanto calore è legato forse a una leggenda che fu alimentata, a quanto pare, dallo stesso re macedone. Secondo quanto si diceva, Nectanebo II, ultimo faraone indigeno dell'Egitto, si era recato in Macedonia nell'anno in cui sarebbe nato Alessandro: introdottosi furtivamente nella stanza di Olimpiade, madre del futuro conquistatore, assunse l'aspetto di Zeus-Ammone e giacque con la donna. Da quell'unione, dunque, nacque il futuro re, nonché futuro faraone d'Egitto. A rinforzare la leggenda contribuì il gesto rituale compiuto di Alessandro durante l'incoronazione: il bacio del nuovo sovrano all'effigie del suo predecessore fu interpretato come un segno d'affetto rivolto da un figlio al proprio padre; che in realtà altro non era che un'astuta mossa politica.

giovedì 8 ottobre 2015

L'ubicazione della tomba di Alessandro Magno

Alla morte di Alessandro si scatenò la lotta per la successione. Punti importanti in tale disputa erano la cerimonia e il luogo di sepoltura del re, che avrebbero consolidato la posizione di chi avesse avuto il privilegio di seppellire e ospitare il suo corpo. Il progetto originario era quello di costruire un monumento funebre in Macedonia. Tolomeo affidò la soprintendenza del progetto ad Arrhideo, uomo di sua fiducia, e fece spargere la voce secondo cui Alessandro avrebbe detto di voler esser sepolto presso l'oracolo di Amon, a Siwa. Fu costruito uno speciale e sfarzoso carro, un vero santuario su ruote: un colonnato circondava la cella coperta da un tetto rivestito d'oro, in cui si trovava il corpo di Alessandro, racchiuso in un sarcofago d'oro massiccio. Arrhideo, d'accordo con Tolomeo, prese il corpo da Babilonia e si avviò verso la Macedonia; ma Tolomeo gli venne incontro e lo dirottò in Egitto via Damasco, scatenando la guerra con Perdicca, che morì sul Nilo. Il corpo di Alessandro arrivò a Menphis nel 322 a.C., e vi fu sepolto provvisoriamente, in attesa che fosse pronta la sontuosa tomba ad Alessandria. Non si sa di preciso quanto tempo la salma sia rimasta a Memphis: secondo Diodoro e Strabone il corpo fu trasportato ad Alessandria dallo stesso Tolomeo I non appena fu pronta la tomba; secondo Pausania rimase invece quarant'anni a Memphis e fu portato ad Alessandria da Tolomeo II. Nella nuova capitale fu preparato un mausoleo detto Soma o Sema, che si trovava al centro della Neapolis, tra il Faro e il Museion. Il Sema, in cui fu sepolto per primo il grande Alessandro, divenne poi la "necropoli dei Tolomei" fino a Epoca Romana; poi iniziano a perdersi le tracce della stessa necropoli. Nel III secolo d.C., quando la città fu preda di disordini, il Sema sparì per sempre. Stranamente, nessuno dei grandi storiografi parla della necropoli reale; notizie indirette ci dicono che si trattava di un magnifico duomo sotto la cui cupola, al centro, si trovava il sarcofago aureo con le spoglie mortali di Alessandro. Delle nicchie laterali nelle pareti erano state previste per ospitare i corpi dei Tolomei. Le informazioni storiche concernono visite auguste alla tomba di Alessandro, ora per rendergli omaggio, ora per depredarla. Così, Tolomeo IV, che voleva raccogliere insieme tutte le spoglie dei suoi antenati, trasferì i corpi, lasciando vuoto il Sema; uno dei Tolomei, probabilmente l'XI, rubò il sarcofago aureo e lo sostituì con uno di vetro; Cleopatra VII (la più celebre) depredò i tesori della sepoltura in un momento di crisi finanziaria; Augusto, volendo rendere omaggio ad Alessandro, sarebbe disceso nella tomba per porre sul sarcofago una corona d'oro e dei fiori. Anche Caligola passò da quelle parti depredando alcuni tesori. L'ultima visita fu quella di Caracalla, nel 214 d.C., che pose sul sarcofago il proprio mantello, la cintura e i gioielli. Sotto Aureliano e Diocleziano (fine del III secolo d.C.) la necropoli era sparita. Già nel IV secolo d.C. Giovanni Crisostomo diceva di ignorare dove fosse la salma del Macedone. Noi archeologi non abbiamo ancora risolto l'enigma, benché ritrovamenti di grandi statue dall'area della via El Horreya, a nord di Kom el Dik, facciano pensare che quella fosse la zona del Sema. Tuttavia il mistero della sua ubicazione rimane.

giovedì 15 agosto 2013

Dov'è la tomba di Alessandro Magno?


Nel 1995, l'archeologa greca Liana Suvaltzi annunciò di aver individuato, nell'oasi di Siwa (non lontano dalla frontiera con la Libia), nientemeno che la tomba di Alessandro Magno. Passarono alcune settimane e, dopo che una schiera di studiosi accorsi da tutto il mondo si erano recati nell'oasi per verificare il sensazionale annuncio, tutto si risolse in nulla di fatto. All'epoca io avevo circa nove anni e guardando le foto del sito mi accorsi che il sito non era altro che parte del tempio di Zeus Ammone e non la tomba del grande condottiero, in realtà anche uno studente del primo anno di archeologia non avrebbe fatto un errore così eclatante. Ricordo che Jean-Yves Empereur, direttore del Centro Studi Alessandrini e archeologo impegnato nelle esplorazioni subacquee del porto della città, aveva commentato: '' I sepolcri degli eroi turbano la mente e gli archeologi al punto da renderli folli e a indurli a spendere la loro vita e i loro beni per trovarli''. Forse l'archeologa greca sperava di trovarsi di fronte alle spoglie del re, come accadde ad Augusto il quale, narra Svetonio, nel 30 a.C., si fece condurre dinanzi al corpo imbalsamato e ben conservato del macedone. In quell'occasione gli si domandò se volesse anche vedere il corpo di Tolomeo I (il capostipite della futura dinastia dei Lagidi e colui che aveva disposto il trasporto della salma di Alessandro da Babilonia in Egitto). Augusto rispose che era sua intenzione vedere un re, e non dei semplici cadaveri. Rimane il fatto che, per quanto potente il suo richiamo, la tomba di Alessandro non è stata ancora trovata; contrariamente a quanto è accaduto a quella di suo padre Filippo rinvenuta nel 1977 a Vergina (Grecia), dall'archeologo Manolis Andronikos.
Da sempre le ipotesi circa il luogo in cui cercare il sepolcro di Alessandro vertono intorno a tre nomi: Alessandria, la vecchia capitale dell'Egitto tolemaico, Menfi, la città che stregò Alessandro, e l'oasi di Siwa, il posto in cui il re fu proclamato figlio del dio Zeus. Quest'ultima gioca appunto un ruolo affatto secondario nelle vicende che videro il giovane condottiero macedone in terra egizia. Alessandro, infatti, si recò a Siwa proprio nel 331, poco dopo aver fondato la città di Alessandria. L'oasi era distante appena otto giorni di marcia dalla città e in essa si trovavano un santuario e un oracolo importante, quello del dio Amon, di cui Alessandro, in quanto faraone dell'Egitto, era ritenuto il figlio. Il luogo, dunque, possedeva tutti i criteri della sacralità necessari perché il giovane macedone potesse sceglierlo come luogo destinato a raccogliere le sue spoglie. E anche le fonti sembrano avvalorare l'ipotesi che l'oasi sacra ad Amon fosse stata prescelta per ospitare il corpo del re. Ma rileggiamo la dettagliata descrizione dedicata da Diodoro Siculo alla questione della preparazione della salma e al suo trasferimento. Dopo essersi soffermato a lungo sui dettagli dello splendido sarcofago aureo entro cui era posta la salma, riempita ''all'interno di aromi, che potevano offrire al corpo allo stesso tempo il profumo e la conservazione'', lo storico del I secolo a.C. prosegue con l'elencazione dei singoli elementi che compongono il carro ''magnifico più di quanto non sembrasse a sentirne parlare''. Il trasferimento della salma avviene sotto la guida di Arrideo, figlio illegittimo di Filippo II. Scrive Diodoro Siculo che ''affidarono poi a Arrideo la missione del trasferimento del corpo, e della costruzione del cocchio coperto, che avrebbe trasportato il corpo del re morto al santuario di Ammone'' (Libro XVIII, 3).
Il corteo viene raggiunto da Tolomeo I, il quale prende in consegna il corpo e lo porta ad Alessandria. Scrive Diodoro Siculo che Tolomeo ''decise di non portarlo per il momento al tempio di Ammone, ma di tumularlo nella città che era stata da lui fondata'', dove sarà seppellito in ''un santuario degno, per la sua grandezza e per la costruzione, della sua gloria''. Questo santuario è il Sema, il monumento al cui interno si sarebbe verificata, trecento anni dopo la morte di Alessandro, la visita di Augusto al corpo del re, come descritto da Diodoro Siculo. Il quale si limita però a riferire che Augusto pone una corona d'oro sul capo di Alessandro Magno, il corpo era stato tolto dalla tomba per essergli mostrato. Ma non accenna al luogo esatto in cui questa di trova. Tuttavia, l'ipotesi più plausibile relativa al luogo di sepoltura rimane quella di Alessandria, visto che nessun autore ci informa poi che il suo corpo abbia davvero raggiunto Siwa, come era stato stabilito in precedenza. Infatti è ad Alessandria, che al centro della planimetria disegnata dall'architetto personale di Alessandro, Dinocrate, venne eretto il Sema, il monumento al corpo del re defunto. Ed è logico pensare che Tolomeo I abbia voluto collocare la salma del grande re proprio qui, al centro della città che Alessandro stesso aveva fondato, rendendo difatti Siwa solo una possibile tappa del corteo funebre del re macedone, poi saltata per ordine dello stesso Tolomeo.
Tuttavia, queste restano solo teorie basate su fonti antiche, finché la sua tomba non verrà ritrovata, ogni ipotesi è puramente concettuale. 

domenica 6 gennaio 2013

Le Catacombe di Alessandria

La città di Alessandria vanta resti di necropoli risalenti al tempo della sua fondazione e altri ascrivibili a periodi addirittura anteriori. Di particolare importanza sono le catacombe scavate nel sottosuolo, dove vennero seppelliti i notabili alessandrini, che a loro modo, volevano mantenersi fedeli alla tradizione egizia di sepoltura. Accanto al muro orientale di Alessandria si trova la necropoli di Chatby che risale al IV e III secolo a.C. Le necropoli più famose appartengono a notabili greci o romani di Alessandria, il cui desiderio era quello di coniugare motivi egizi con quelli ellenistici e romani. Nell'isola di Pharos c'è la necropoli di Anfushi, la cui cronologia copre un periodo che va dal III al I secolo a.C. Le tombe sono decorate in evidente stile pompeiano, anche se i temi sono tipicamente egizi. Per entrarvi bisogna passare per un atrio sotterraneo da dove si accede alle sale in cui venivano sepolti i defunti, non cremati bensì inumati. Le più importanti sono le catacombe di Kom el-Shuqafa, con tombe del I secolo e del II secolo d.C. Da notare che, partendo dalla tomba di una famiglia o dal rappresentante di una corporazione, si è finito per dare vita a una specie di labirinto su più piani. Un'altra necropoli alessandrina, peraltro scoperta recentemente, è quella di Gabbani, con tracce di inumazioni e cremazioni in loculi o nicchie.

Agathosdaimon: Questo genio, che compare in numerose tombe sotterranee di Alessandria, era legato a Shay, un popolare dio egizio raffigurato in forma di serpente. Esso era un protettore e un benefattore, dotato della doppia corona, del caduceo di Ermes e di un tirso di Dionisio. Sopra di lui veniva posta la testa della Medusa, con un chiaro riferimento alla dea Atena.

Triclinium: Il triclinium era la sala da pranzo romana. Nelle tombe era il luogo deputato ai banchetti funerari, e alle feste o anniversari di una certa importanza. Era costituito da quattro pilastri, lavorati nella roccia come il resto della tomba.



martedì 1 febbraio 2011

Le regine tolemaiche

Alla morte di Alessandro Magno (323 a.C), i Lagidi governarono l'Egitto. Accanto ai faraoni le regine tolemaiche svolsero un ruolo decisivo e la loro impronta è ancora presente nelle città che portano i loro nomi. Il periodo Ellenistico Tolemaico (332-30 a.C) costituì l'ultima fase del regno egizio. Durante quest' epoca furono le regine a godere di notevole prestigio. Alcune governarono come reggenti, altre a pieno titolo.
Tutte ebbero come nome Berenice, Arsinoe o Cleopatra. Furono donne ambiziose, intelligenti e abili che non esitarono a prendere parte attiva nella politica.
Di queste energiche donne sono giunte fino a noi molti ritratti e questo costituisce una prova della loro importanza. Inutile dire che la più celebre regina d'Egitto fu senz'altro, Cleopatra VII, anche se le regine che la precedettero non furono da meno nel contribuire a scrivere la storia del paese.
La prima delle regine tolemaiche fu Berenice I, moglie del faraone Tolomeo I, generale di Alessandro Magno e suo fido compagno. Ebbe per figlio Tolomeo II che dedicò alla madre diverse città chiamate con il nome della regina. Arsinoe II, moglie e sorella di Tolomeo II, ottenne le lodi dei poeti del suo tempo per aver contribuito allo sviluppo colturale di Alessandria. Non tutte le regine tolemaiche erano di origine egizia. Ad esempio, Berenice II(in alto a destra), moglie di Tolomeo III, era figlia di Megas, re di Cirene, un territorio che fu annesso all'Egitto. Tre di queste regine, Arsinoe II, Berenice II e Arsinoe III (moglie di Tolomeo IV), vennero anche divinizzate.
Le loro immagini compaiono su alcuni recipienti destinati alle libagioni. Si ebbe, poi, anche il caso di due regine, Cleopatra II e sua figlia Cleopatra III, che regnarono contemporaneamente. Alcune esercitarono la reggenza fino al compimento della maggior età delle proprie figlie, altre, come Berenice IV, regnarono per un breve periodo. L'ultima rappresentante della monarchia faraonica fu Cleopatra VII.
La maggior parte delle regine tolemaiche venne usata come mezzo per accedere al trono d'Egitto. In alcuni casi le figlie dei faraoni furono date in moglie ai governatori della Siria, come accadde a una Berenice, sorella del faraone Tolomeo III e moglie del re Antioco II.

martedì 2 novembre 2010

Le statue dei Faraoni


In Egitto l'arte rifletteva gli avvenimenti quotidiani, le sculture dei faraoni confermavano ciò che si leggi in molte opere dell'epoca: i sovrani erano dotati di un potere soprannaturale, che manteneva l'ordine dell'universo e conferiva loro una natura divina. Le opere arrivate fino ai nostri giorni permettono di leggere nelle loro fattezze e nelle loro pose le vicissitudini del potere reale. Le forme in cui i sovrani sono raffigurati esprimono il loro grado di autorità. Nei momenti di massimo splendore della monarchia, il faraone era un re-dio; al contrario, nelle epoche in crisi, egli era raffigurato in atteggiamento quasi servile. Le regole per ritrarre il faraone furono fissate all'inizio dell'Antico Regno. Una serie di elementi iconografici definiva la regalità, per esempio la posa ieratica, le mani appoggiate sulle cosce, la barba posticcia, i diversi tipi di corone, la cosa di leone o di toro, gli scettri o la grandezza della figura. Nel Medio Regno, il ritratto scultorio del re accentuò i lineamenti che caratterizzavano il volto, nel Nuovo Regno, sotto il governo di Amenhotep III, si pose la costruzione dei colossi; il faraone ''eretico'' Akhenaton favorì la stilizzazione e l'iperrealismo; infine, nel Periodo Tolemaico, le figure si ellenizzarono. Fu utilizzato un vasto repertorio di forme e canoni per rappresentare il sovrano: dalle immagini destinate a preservare l'anima del defunto, a quelle che simboleggiavano il potere del faraone, come le sfingi, passando per quelle in cui il faraone era accompagnato da dei. In tutte il re suscita una sensazione di maestosità. La cura con cui gli artisti raffiguravano il faraone esprime il ruolo chiave che il re aveva nella civiltà egizia. La grandezza del corpo, le fattezze del volto e l'atteggiamento del sovrano erano caratteristiche che lo distinguevano dal resto delle figure umane.
Le sculture dei faraoni venivano realizzate nelle botteghe reali. Numerosi artigiani disegnavano le fattezze del re sui blocchi di pietra di vari tipi e grandezze. La decorazione di alcune tombe di nobili e gli scavi delle botteghe della città di Akhenaton sono serviti a conoscere le fasi di elaborazione di una statua. In primo luogo, il faraone posava per lo scultore di fiducia. Da questo modello veniva ricavato un gesso che serviva per realizzare i ritratti successivi. Poi un gruppo di operai si occupava di eseguire le figure.

venerdì 1 ottobre 2010

Cleopatra, dal mito alla storia: Il ritratto filo-romano degli antichi


Uno dei migliori biografi moderni di Cleopatra, W.W.Tarn, scrive che contro di lei ''venne lanciata una delle più terribili campagne d'odio della storia; nessuna accusa era troppo bassa per non esserle scagliata contro, e le colpe attribuitele da allora sono riecheggiate per il mondo''. Con una serie di articoli, ho intenzione di tracciare diversi ritratti della regina Cleopatra, per poi passare ad un analisi storica della figura della regina, basata sui reperti e i ritrovamenti degli egittologi. Partiamo con la figura tracciata dagli autori romani, che ne hanno fatto il simbolo della lussuria e della vanità.

Poiché spesso scrivono per glorificare il regno di Augusto, gli autori antichi contribuiscono a creare l'immagine di una Cleopatra pericolosa seduttrice, che mette a repentaglio la sicurezza dell'Occidente. Così accade anche ai poeti contemporanei di Augusto, come Virgilio, Properzio e Orazio; nel I secolo d.C. Lucano dedica la sua epopea, la Pharsalia, alla gloria di Pompeo e alla denuncia di Cesare e di Cleopatra; l'epitomatore romano Floro (II secolo d.C.) e lo storiografo greco Dione Cassio, suo contemporaneo, mostrano una netta propensione per Augusto. A loro si può aggiungere lo storico ebreo Flavio Giuseppe che, nel I secolo d.C., si presenta come acceso partigiano dei romani e del re di Giudea, Erode, nemico di Cleopatra. A questi attacchi violenti, si oppone la voce romanzesca di Plutarco, biografo e moralista greco (49-120 d.C.). Plutarco si basa su fonti di prima mano: le testimonianze verbali raccolte dai membri della sua famiglia vissuti ad Alessandria ai tempi di Cleopatra (suo nonno partecipò alla battaglia di Azio tra le file di Antonio) e il diario del medico personale della regina, Olimpo.

''Questa principessa ambiziosa e avara, dopo aver perseguitato in modo così crudele i propri consanguinei, che non ne restava più nessuno vivo, rivolse il suo furore contro gli estranei. Calunniò presso Antonio i più abbienti e lo indusse a farli morire per impossessarsi del bottino''. Flavio Giuseppe, Guerra Giudea.




''L'incestuosa Tolomeide [...]. L'empia sorella si sposa col fratello, già sposa del condottiero latino e, passando da un marito all'altro, possiede l'Egitto e si guadagna Roma''. Lucano, Pharsalia, X, 68 e 357-359.



''Si deve bere, e con il piede battere la terra in libertà, ora, era già tempo, amici, di ornare il convito sacro degli dei con vivande dei sacerdoti Salii. Era sacrilegio, prima d'ora, trarre dalle cantine avite il Cecubo riposto, mentre al Campidoglio preparava la regina folli rovine e morte all'impero, lei, col suo greggio immondo di uomini turpi, sfrenata nelle sue speranze, ubriacata dalla dolce sua fortuna. Ma fu follia placata da quella sola nave scampata al fuoco, e la sua mente allucinata dal vino di Mareia Cesare ricondusse alla realtà paurosa, incalzando con la forza dei remi lei che veloce fuggiva dall'Italia, come sparviero incalza le tenere colombe, come il cacciatore le lepre che corre nelle pianure della nevosa Emonia, per consegnare alle catene quel segno funesto del destino. Ma nobilmente lei cercò la morte; non ebbe femminile timore della spada né ripiegò con la flotta veloce verso coste remote: e osò guardare la sua reggia umiliata con sereno sguardo, coraggiosa a toccare terribili serpenti per assorbire nel suo corpo il nero veleno, resa più fiera dalla morte così deliberata, per sottrarsi ai vascelli nemici, per impedire d'essere condotta, come donna comune, lei, donna regale, al superbo trionfo''. Orazio, Odi, 1-37.


''Quindi [per sedurre Antonio] ella aveva preparato un appartamento splendido e un letto sontuoso; si era adornata con una certa trascuratezza e (colmo della raffinatezza)i suoi abiti da lutto mettevano in risalto il suo splendore''. Dione Cassio, Storia Romana, 51.


''Due sono state le perle più grandi di tutti i tempi; entrambe le possedette Cleopatra, ultima regina d'Egitto, avendole ricevute dalle mani dei re dell'Oriente. Costei, mentre ogni giorno Antonio si rimpinzava di cibi raffinati, con un superbo e al tempo stesso sfrontato disdegno, come una regina meretrice, denigrava ogni suo lusso e l'apparato dei suoi banchetti; e poiché egli le chiedeva che cosa di poteva ancora aggiungere a quella magnificenza, rispose che avrebbe in una sola cena consumato dieci milioni di sesterzi. Antonio desiderava apprendere il modo, ma non credeva che la cosa fosse possibile. Quindi, fatta la scommessa, il giorno successivo-quello in cui si svolgeva il giudizio-fece apprestare ad Antonio una cena peraltro magnifica, affinché quel giorno non andasse perduto, ma di ordinaria amministrazione. Antonio scherzava e chiedeva il conto delle spese. Ma la donna, confermando che si trattava di un corollario, che quella cena sarebbe costata il prezzo fissato e lei da sola avrebbe mangiato dieci milioni di sesterzi, ordinò di portare la seconda mensa. Secondo le sue istruzioni, i servi posero davanti a lei soltanto un vaso d'aceto, la cui forte acidità fa sciogliere fino alla dissoluzione le perle. Portava alle orecchie quei gioielli più che mai straordinari:un capolavoro veramente unico in natura. Pertanto mentre Antonio aspettava di vedere che cosa mai avrebbe fatto, toltisi una delle due perle, la immerse nell'aceto e, una volta liquefatta, la inghiottì. Gettò la mano sull'altra perla Lucio Planco, giudice di quella scommessa, mentre la donna si preparava a distruggerla alla stessa maniera; e sentenziò che Antonio era vinto: presagio che si è verificato. La fama accompagna la gemella di quella perla:una volta catturata la regina, vincitrice di una controversia così importante, la perla fu tagliata in due, affinché ad entrambe le orecchie di Venere, a Roma, nel Pantheon, vi fosse la metà della loro cena''. Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, X, 58.


''Cleopatra ha potuto soggiogare un vecchio con i suoi sortilegi'' Lucano, Pharsalia, X, 260.



''Ahimé, soldati romani(non lo vorreste credere, o posteri!)venduti come schiavi a una femmina''. Orazio, Odi e Epodi, 9, 11-12.



''Noi siamo senza dubbio Romani e comandiamo la più vasta e la migliore fra le terre abitate:è indegno dei nostri padri l'essere disprezzati e calpestati da una femmina egiziana![...] Tutti eroi[...]sarebbero feriti, eccome, se si accorgessero che siamo caduti in mano a un flagello di donna!Antonio stesso è diventato''lo schiavo di una femmina'', è ''effeminato'', ''si comporta da femmina''.''. Dione Cassio, Storie, 50, 24.




''I suoi unici amori certi furono Cesare e Antonio. E' ben poco, se si pensa alla vita turbolenta dei romani suoi contemporanei!E inoltre quelle relazioni furono riconosciute ufficialmente''. Plutarco, Vita di Antonio.




Il mio nuovo libro: Immortali - Le mummie di uomini e donne dell'antico Egitto.

 Con questo post voglio inaugurare il nuovo blog. Ormai è passato circa un anno dal mio ultimo post ed è arrivato il momento per me di torna...