venerdì 9 gennaio 2015

La schiavitù nell'Antico Egitto

La società egizia dell’antico Egitto non era fondata sulla schiavitù, al contrario di quanto si potrebbe pensare. Tuttavia è vero, però, che i prigionieri di guerra e gli egizi di più umili condizioni potevano essere obbligati a svolgere compiti di ogni sorta.


Il termine “schiavo” deriva dal latino slavus, che significa “slavo”: in origine, infatti, alludeva ai numerosi slavi ridotti in schiavitù dalle popolazioni germaniche nel corso dell’alto medioevo. Nell'eccezione moderna, invece, uno schiavo è un individuo che viene considerato come proprietà altrui, e che pertanto non gode dei più elementari diritti. Partire da questa definizione è importante, perché non sempre è facile circoscrivere la nozione di schiavitù quando si parla dell’antico Egitto. Nel paese dei faraoni, infatti, alcune persone sottomesse ai voleri di un padrone potevano ciononostante possedere dei beni propri o, a loro volta, avere dei servitori. D’altra parte, vi erano uomini “liberi” i cui diritti erano tuttavia limitati. 

Liberi lavoratori
Una volta fatta questa premessa, è opportuno sfatare una sorta di mito tramandato per secoli fino ai nostri giorni: quello, cioè, secondo cui nell'antico Egitto faraonico pullulava di schiavi utilizzati soprattutto per costruire i suoi edifici monumentali. In realtà, almeno nel periodo in cui furono innalzate le grandi piramidi, cioè durante l’Antico Regno, non esistevano affatto la schiavitù. Le grandi opere architettoniche erano affidate a squadre scelte di architetti, astronomi e altri lavoratori altamente qualificati, i quali erano assistiti da operai e artigiani specializzati e consapevoli della sacralità insita nella loro attività. Ciò non toglie che in alcuni cantieri venissero utilizzati anche i prigionieri di guerra. Gli operai erano raggruppati in “sindacati” che osservavano regole ferree e che li proteggevano da eventuali abusi di potere. Un’incisione attribuita al faraone Micerino (IV dinastia) recita: “Sua Maestà vuole che nessun uomo sia costretto ai lavori forzati e che ognuno tragga soddisfazione del proprio lavoro”.


Prigionieri di guerra
Fu solo a partire dal Nuovo Regno, con le campagne militari condotte dai faraoni in Nubia e in Asia, che si verificò un aumento della manodopera di tipo servile. Schiavi stranieri provenienti dai paesi sconfitti venivano offerti come ricompensa ai soldati più valorosi, oppure donati ai templi o messi a servizio nelle dimore dei faraoni. A questi prigionieri di guerra si aggiungevano anche schiavi egizi. Questi potevano essere asserviti per periodi limitati, per esempio se dovevano ripagare un debito, o anche per tutta la vita, come accadeva ad alcune ragazze che vendevano se stesse per fuggire dalla povertà. 

Donne in schiavitù
Molte delle donne fatte prigioniere dagli egizi prestavano servizio nei magazzini dei templi, ma la maggior parte di esse lavorava come serva nelle case. La testa di queste ragazze veniva rasata, e rimaneva solo un ciuffo a “coda di porcellino”. Le prigioniere di guerra più belle erano destinate agli harem e ai palazzi signorili, mentre le meno seducenti entrano spesso a far parte del personale dei templi, come cantanti o danzatrici. I bambini non venivano mai separati dalle madri. In generale, sembra che queste donne possedessero alcuni beni e godessero anche di una certa libertà, come si evince da un antico componimento: “Vedete, i servi ora possono parlare. Quando la padrona comanda, i domestici non sono sull'attenti. Vedete, colei che non possedeva nemmeno una scatola ora possiede un scrigno, e colei che poteva guardarsi solo nell'acqua ora possiede uno specchio”. 

I “diritti degli schiavi”
Durante il Nuovo Regno, i compiti degli schiavi potevano essere i più diversi: occuparsi degli aspetti più duri del lavoro nei campi, svolgere mansioni non religiose nei templi, occuparsi di faccende domestiche o amministrative. A quanto sembra, però, il lavoro servile non costituiva un elemento fondamentale dell’economia del paese. A ogni modo, vi erano categorie di persone che erano proprietà di altri egizi, i quali potevano venderle, affittarle o lasciarle in eredità. Anche questi uomini, però, potevano avere dei diritti, sebbene limitati. Alcuni di loro possedevano case e servitori che venivano trasmessi di padre in figlio, erano sposati con donne libere e i loro figli non erano necessariamente degli schiavi. D’altra parte, se uno di essi fuggiva e veniva poi ritrovato, rischiava pene pesanti, che andavano dalle bastonate alla condanna a morte.

Un commercio ufficiale
Da un certo punto in poi, si sviluppò una sorta di commercio ufficiale degli schiavi, soprattutto a opera di mercanti siriani che offrivano manodopera servile reclutata a basso prezzo nel loro paese. Il valore di scambio di uno schiavo era di due deben d’argento per un uomo e quattro deben d’argento per una donna; l’acquisto era ufficializzato da un giuramento davanti a testimoni e registrato da un funzionario. Uno schiavo poteva anche essere venduto a giornata, a un prezzo piuttosto oneroso. Gli schiavi di origine straniera ricevevano dei nomi egizi. Tutti potevano affrancarsi rivolgendosi a un tribunale, e a volte potevano ottenere di cambiare padrone anche senza il consenso di quest’ultimo. Il modo più frequente per affrancarsi era comunque il matrimonio. Una testimonianza in questo senso è offerta da un testo conservato al Museo del Louvre di Parigi, secondo cui una donna libera di nome Takamenet sposò lo schiavo Amenyiu, che era un prigioniero di guerra di Thutmosi III e che finì con l’essere “adottato” dalla famiglia della ragazza.

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