giovedì 10 dicembre 2015

Il "culto" di Ammit

Ad Ammit non erano dedicate cerimonie di culto, né le furono consacrati dei templi. In compenso, "la grande divoratrice" era oggetto di un vero timore reverenziale da parte degli egizi: è in questa chiave, dunque, che possiamo comprendere il rapporto che legava gli uomini dell'epoca a questa civiltà.



Gli abitanti dell'antico Egitto avevano sempre ben presente il ruolo che Ammit svolgeva nel corso del giudizio finale, eppure non dedicarono a questa divinità né templi né cerimonie particolari. Si tratta di una contraddizione solo apparente; di fatto, gli egizi erano consapevoli che la "grande divoratrice" era un nemico da evitare e affrontare al tempo stesso: a questo scopo, elaborarono una vera e propria strategia racchiusa nel celebre Libro dei morti, l'unico vero "antidoto" contro l'insaziabile appetito della feroce creatura.

Uno strumento di protezione
Il Libro dei morti consisteva in un'immensa raccolta di formule magiche e di immagini destinate a rinforzare l'effetto degli incantesimi. Secondo gli egizi, la semplice presenza di questi testi nelle tombe proteggeva i mortali dagli effetti del decesso e permetteva ai defunti di affrontare al meglio la delicata fase di passaggio al regno di Osiride. Per questo, la raccolta di formule era detta anche Libro dell'uscita alla luce del giorno. Tra i diversi incantesimi ve n'era uno di origine antichissima che serviva a impedire ad Ammit di gettarsi sulla sua possibile preda: si chiamava "Dare al proprio cuore una buona coscienza", e permetteva a un cuore carico di colpe di alleggerirsi in vista del giudizio finale. È difficile stabilire se gli egizi vedessero in questa pratica una sorta di inganno perpetrato ai danni di Osiride o, al contrario, una manifestazione di misericordia da parte del dio dei morti. Di fatto, la possibilità degli uomini di redimersi all'ultimo minuto non intaccava il ruolo della grande divoratrice, che consisteva essenzialmente nel dissuadere i mortali dal compiere azioni malvagie e nel convincerli a vivere secondo maat, vale a dire secondo giustizia. Troppo forte e temuto, infatti, era il rischio di cadere tra le fauci della mostruosa creatura. Per inciso, si può notare che le stesse "opere di misericordia" introdotte più tardi dal cristianesimo evocano alcuni dei precetti positivi cui già gli egizi si attenevano per scampare alla dannazione eterna.

"Opere di Misericordia" nell'antico Egitto
È possibile che i testi religiosi egizi abbiano ispirato quelli cristiani? I precetti che seguono, che ricordano quasi alla lettera alcuni insegnamenti del cristianesimo sembrano dimostrarlo: "Ho dato il pane agli affamati e da bere agli assetati. Ho vestito chi era nudo. Ho fatto attraversa il fiume a chi non aveva una barca. Ho sepolto chi non aveva figli". Anche secondo gli egizi, gli uomini che compivono queste buone azioni non dovevano temere il giudizio divino.

Ammit nelle tombe
In teoria, dato che Ammit era già presente nel Libro dei morti, gli egizi non avevano bisogno di raffigurarla una seconda volta nelle tombe. Diverse sepolture dell'epoca, però, fanno eccezione a questa regola, poiché presentano immagini dell'essere infernale dipinte sulle pareti. Una di queste si trova nella necropoli di El-Khokha, nella regione tebana: nella tomba di Nefersekeru, Ammit è raffigurata mentre è in attesa dell'esito della pesatura del cuore di un defunto. Una rappresentazione analoga si trova nella tomba di Bannentiu, in un'oasi del deserto occidentale chiamata Bahariyah, e si potrebbero citare anche altri esempi. Certamente, perché un mortale osasse far rappresentare Ammit sulle pareti della sua sepoltura doveva essere sicuro di possedere un cuore puro. Diversamente, non gli restava che affidarsi alle formule magiche.

Dea o concetto divinizzato?
Grazie ai benefici poteri del Libro dei morti, dunque, Ammit costituiva più una sorta di spauracchio che una reale minaccia. Va detto, peraltro, che l'essere in questione non veniva neanche considerata una divinità in senso stretto. Per gli egizi, si trattava più propriamente di un concetto divinizzato, proprio come Maat, l'altra grande protagonista del giudizio, ma a differenza di Ammit, la dea della verità e della giustizia, era una divinità a tutti gli effetti. Se quest'ultima incarnava la rettitudine, la mostruosa creatura dalle fauci di coccodrillo rappresentava la lotta al male, colei che impediva ai cuori impuri di accedere alla vita eterna. Verso l'anno 1000 a.C., poi, gli egizi cominciarono a vedere in Ammit anche una sorta di figura materna: spingendo i mortali a rifuggire le azioni malvagie, infatti, questa entità divina permetteva loro di accedere a una seconda vita, quindi di rinascere. Questo modo di interpretare la figura di Ammit spiega come mai gli egizi non ritennero opportuno dedicarle templi, cappelle o altari, e come mai non esistesse un clero a lei consacrato. Il culto della "grande divoratrice", infatti, si esprimeva nell'intimo di ciascun uomo, prendendo la forma di quel timore reverenziale con cui ognuno si preparava ad affrontare il giudizio del tribunale divino.


Ammit a Deir el Medina
Come abbiamo visto, la maggior parte delle immagini di Ammit a noi note si trova nei rotoli di papiro del Libro dei morti, tuttavia, sono state ritrovate anche delle raffigurazioni in bassorilievo. La più celebre è nel tempio di Hathor, a Deir el-Medina. Qui, ricordiamo, si trovava il villaggio degli artigiani che realizzarono le tombe della Valle dei Re: molte delle sepolture locali sono decorate con raffigurazioni ispirate al Libro dei morti, in cui Ammit è sempre presente. All'interno del tempio, nella cappella di Amon-Sokar-Osiride, spicca un grande bassorilievo che descrive il rito della psicostasia: mentre il defunto pronuncia la sua confessione negativa davanti a Maat, gli dei Horus e Anubis controllano la pesatura dell'anima e Thot ne registra il risultato; Ammit, che volta loro le spalle è seduta davanti a Osiride; tra lei e Thot, si nota l'inconsueta presenza di un personaggio seduto su una croce ankh: dal ciuffo infantile, sembrerebbe trattarsi di Harprocate, L'Horus bambino. Da quel momento in poi si decide la sorte dell'anima del defunto.

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