domenica 27 dicembre 2015

Ramses II e la giovane sposa hittita

La battaglia di Kadesh è sicuramente il più famoso conflitto della storia egizia, tutti noi conosciamo la storia dello scontro tra egizi e hittiti, e del famoso primo trattato di pace della storia che vi pose fine. Per suggellare tale patto ebbe luogo anche un matrimonio, un evento che avrebbe così portato pace e prosperità ad entrambi i popoli.


Il trattato di pace con gli hittiti aveva messo fine ad un lungo periodo di conflitti armati, ma bisognava ancora normalizzare i rapporti e renderli meno formali. Ci fu uno scambio di lettere e di regali, le famiglie reali chiesero notizie le une delle altre e si arrivò all'accordo fondamentale per il trattato di pace, cioè il matrimonio tra una principessa straniera e il faraone Ramses II.
Tuthmosis III aveva preso in moglie tre straniere, probabilmente figlie di capi siriani, per calmare gli ardori di quella regione bellicosa. Al fine di ratificare un importante trattato di pace con il regno dei mitanni, Tuthmosis IV aveva celebrato un matrimonio diplomatico con la figlia del re di questo Stato dell’Asia. L’anno 10 del regno di Amenhotep III, la figlia del re del Naharina si era recata in Egitto, accompagnata da una scorta importante, per unire il suo destino a quello del faraone, che organizzò altri matrimoni con straniere e annunciò questi felici eventi con diverse emissioni di scarabei.
Fin dal loro arrivo in Egitto a queste donne venne dato un nome egizio, cosicché se ne perdono le tracce. Probabilmente divennero dame di corte e a corte passarono anni felici, sempre che non soffrissero troppo di nostalgia della loro terra. Possiamo dire che sia degno di nota il fatto che questa diplomazia “da matrimoni” agì sempre a senso unico, dall'estero verso l’Egitto. Al re di Babilonia, che aveva dato in sposa la figlia ad Amenhotep III e chiedeva al faraone di mandargli una principessa egizia, quest’ultimo rispose in modo categorico: “Mai, dal tempo degli antichi, la figlia di un faraone è stata data a chicchessia”.
Ispirandosi a questi esempi famosi, Ramses II consolidò la pace nel vicino oriente sposando, quanto pare, una babilonese, una siriana e due hittite. Benché l’evento avesse ormai un carattere meno solenne che in passato, Ramses il Grande diede molto risalto al suo matrimonio dell’anno 34, probabilmente a causa della personalità della donna che avrebbe lasciato il rigido clima dell’altopiano d’Anatolia per andare a vivere in Egitto: si tratta della figlia di Hattusili, “grande capo” hittita, il principale avversario del faraone. Il trattato di pace dell’anno 21 era stato rispettato da entrambe le parti, ma i due monarchi convennero sulla necessità di metterlo in atto in modo definitivo e spettacolare. Da parte egizia si delineò una situazione non troppo favorevole agli hittiti. La potenza di Rames non aveva forse spaventato tutti i capi stranieri, e soprattutto quello dell’Hatti, il cui paese era desolato e in rovina, per tanto sua figlia sarebbe partita per l’Egitto con molti doni, oro, cavalli, decine di migliaia di bovini, capre e montoni. Tale mossa era sicuramente politica, chi avrebbe potuto opporsi così a Ramses, baluardo del suo paese, dispensatore di luce al suo popolo, saggio dalle giuste parole, coraggioso, vigile, a cui forniva ogni ben di dio? Per il re di Hatti, il corpo del faraone era fatto d’oro, il suo scheletro d’argento, Ramses era padre e madre di tutto il paese del Nilo e pertanto ne conosceva ogni segreto. Al grande capo hittita, non rimaneva dunque che inchinarsi davanti al faraone d’Egitto: “Sono venuto verso di te per adorare la tua perfezione, perché tu incateni i paesi stranieri, tu, il figlio di Seth! Mi sono spogliato di tutti i miei beni, mia figlia è davanti a te per offrirteli. Tutto ciò che ordini è perfetto. Ti sono sottomesso, come tutto il mio paese”. Anche se la situazione non fu così favorevole al faraone, è pur vero che il re hittita, al termine di una trattativa piuttosto lunga, accettò di buon grado di inviare sua figlia a Ramses, come pegno di pace.
Il viaggio non si annunciava facile: era inverno, bisogna superare zone montuose, passare attraverso strette gole e imboccare sentieri non tracciati prima di arrivare alla frontiera. Per di più, il corteo hittita, trovò il mal tempo, cosa che disturbò non poco la sua marcia. Fu Ramses, secondo il racconto egizio, grazie ad un offerta a Seth, a ristabilire condizioni climatiche normali. Il faraone inviò un corpo d’armata incontro alla sua futura sposa. Quando gli egizi e gli hittiti si incontrarono, finirono  gli uni nelle braccia degli altri, bevvero e mangiarono insieme, si unirono come fratelli evitando ogni disputa. Gli abitanti dei paesi attraversati da quell'insolito corteo non credevano ai loro occhi: vedere soldati hittiti e egizi allegramente mescolati gli uni agli altri, un dignitario esclamò: “Come è grande ciò a cui assistiamo oggi. La terra di Hatti appartiene al faraone così come l’Egitto. Il cielo stesso è posto sotto il suo sigillo”.
Dopo aver attraversato Canaan e costeggiato il Sinai, la principessa hittita arrivò finalmente a Pi-Ramses, la magnifica capitale di Ramses II. L’accolse il faraone in persona, e giudicò che la fanciulla avesse un bel viso e le mise il nome di Maathorneferure e le concesse un onore straordinario: una stele incastonata nel muro meridionale esterno del grande tempio di Abu Simbel. Vi si vedono sette Ptah ispirare Ramses mentre è venerato dal re hittita e da sua figlia.
La stele C284 del Louvre, scoperta a Karnak, è un documento curioso. Redatta durante la XXI o XXII Dinastia, è un lontano eco del matrimonio della principessa hittita con Ramses II. Vi sono, infatti, i diciassette mesi di viaggio di una bella principessa venuta da un lontanissimo paese, il grande Bakhtan, per scoprire l’Egitto. La terra di hatti era molto più vicina, ma il narratore calca un po’ la mano. Una grave preoccupazione tormentava la bella principessa: sua sorella Bentresh era ammalata e i medici del Bakhtan non riuscivano a curarla. Ci riuscirono, invece, la medicina e i medici dell’Egitto. Un medico tebano, inviato in consulto, fece una diagnosi inquietante: Bentresh era posseduta da un demone. Soltanto un dio quindi avrebbe potuto guarirla. Detto fatto: l’Egitto inviò nel Bakhtan la statua di Khonsu, un dio che svelava il destino e cacciava via gli spiriti erranti. La statua compii il suo dovere e Bentresh recuperò la salute. Tuttavia il principe del Bakhtan commise una scorrettezza, si rifiutò di restituire agli egizi la statua. Un sogno però gli fece cambiare idea: Khonsu gli apparve e gli ordinò di rimandare subito la statua nella terra del Nilo. Temendone la collera, il principe gli obbedì. Quanto alla principessa del Bakhtan, immagine poetica della figlia di un re hittita, si lasciò ammaliare dalla magia della terra dei faraoni;  stereotipo usato per ogni straniera in terra d’Egitto.

giovedì 24 dicembre 2015

I cartigli reali dei faraoni

L'inserimento del nome del faraone in una figura di forma ovale diede a Champollion la chiave per decifrare i geroglifici. Tale figura era un cartiglio reale.



Il cartiglio reale era una corda legata a forma di ellisse, al cui interno veniva scritto il nome del faraone. Il termine deriva dal francese cartouche: i soldati francesi, durante la spedizione in Egitto di Napoleone, lo chiamarono così perché la sua forma allungata richiamava quella delle cartucce dei loro fucili. Presto fu messo in relazione con l'uroboros, il serpente che si morde la cosa e che simboleggia un cerchio senza inizio né fine, e quindi l'idea di eternità e resurrezione. La sua importanza fu tale che molto oggetti vennero rappresentati con questa forma. Tuttavia, la principale utilità del cartiglio consisteva nella protezione del nome che vi era incluso; questa fu la regione per cui, volendo distruggere la memoria di un faraone, si distruggevano i cartigli con il suo nome. Era utilizzato anche per simboleggiare il controllo dell'Egitto sui suoi nemici, raffigurati come un cerchio con la testa umana e mani legate dietro la schiena. Il cartiglio non è altro che la forma allungata del segno chen, che permetteva quindi l'inserimento del nome del faraone e per proteggere quindi la sua figura. Il cartiglio era anche associato al sole e veniva decorato con elementi pieni di reminiscenze solari. Il sole e la sua rappresentazione erano un tema ricorrente,  simboleggiava il percorso del sole nell'universo. Durante il Nuovo Regno e particolarmente durante la XVIII dinastia, alcuni faraoni si fecero costruire la camera del sarcofago a forma di cartiglio. Persino il sarcofago di alcuni faraoni fu realizzato in nella stessa forma, come quello di Merenptah o quello di Ramses III, ciò serviva a donare protezione nell'aldilà e ad assicurare la resurrezione. 

mercoledì 16 dicembre 2015

Pepi II: il regno più lungo

Secondo la tradizione, questo faraone della VI dinastia regnò per più di novant'anni. Il suo regno segnò un cambiamento epocale: il passaggio dalla prosperità dell'Egitto dell'Antico Regno allo scompiglio del Primo Periodo Intermedio.
Una statuetta alta quaranta centimetri, esposta al Brooklyn Museum di New York, costituisce forse l'unica rappresentazione disponibile della più importante figura della VI dinastia egizia: il faraone Pepi II. Seduto sulle ginocchia della madre, la regina Ankhnesmeryre, il futuro sovrano ha il corpo esile di un ragazzo ma il volto di un adulto, quasi di un anziano. In questo modo, forse, l'artista volle conferire una maggiore solennità al ritratto del giovane principe. È anche possibile, tuttavia, che questa scelta sia stata dettata dalla necessità di ricordare che quello di Pepi II fu il regno più lungo di tutta la storia dell'Antico Egitto.

Faraone a sei anni
Secondo alcuni studiosi, il regno di Pepi II durò settant'anni, una lunghezza che sarebbe giù riguardevole; secondo la tradizione, invece, si prolungò addirittura fino al novantaquattresimo anno di regno, il che significa che il sovrano sarebbe stato un centenario, essendo salito al trono alla tenera età di sei anni. Se si considera che l'Antico Regno abbracciò un arco di tempo pari a circa cinque secoli, il regno di Pepi II, da solo, ne avrebbe monopolizzato uno intero.
Figlio di Pepi I e fratellastro di Merenra, al quale succedette, Pepi II fu il quinto faraone della VI dinastia, che regnò tra il 2460 e il 2200 a.C. L'Antico Regno era allora al suo apogeo: il potere centrale poggiava su basi molto solide ed era detenuto dal faraone, un monarca assimilato a un dio. Questi irradiava la propria autorità incontestata su tutto il paese e il popolo viveva in pace, abbondanza e prosperità.

Il regno più potente del mondo
Il regno sul quale il giovane Pepi II si apprestava a governare era uno dei più potenti, se non addirittura il più potente del mondo di quell'epoca. Menfi, capitale dell'Egitto all'epoca, era una magnifica città ricca di splendidi palazzi, templi e santuari. I sovrani delle dinastie precedenti si erano rivelati artefici di costruzioni di grande genio: Cheope, Chefren e Micerino, infatti, avevano fatto erigere i più incredibili monumenti del mondo, cioè le tre grandi piramidi dell'altopiano di Giza. I loro successori continuarono su questa strada: è vero che le piramidi costruite successivamente non ebbero la stessa maestosità delle tre precedenti, ma è vero anche che furono costruiti edifici particolarmente imponenti e dalle proporzioni perfette. Vicino a Menfi, nelle necropoli di Saqqara e di Abusir, sono allineate le "mastabe, splendide tombe fatte costruire da nobili e dignitari per il loro viaggio nell'eternità e adornate da magnifiche decorazioni: dei veri gioielli architettonici. Sul fronte esterno, l'Egitto era temuto e rispettato. Anche il commercio era florido, e furono fondate delle colonie in Nubia, una terra che da sempre affascinava i sovrani egizi, sensibili al miraggio dei "paesi del sud". La Nubia, infatti, era una regione meravigliosa, un vero paradiso terrestre da cui le carovane tornavano cariche di oro, pietre preziose, legni pregiate e unguenti. Gli stessi abitanti della zona, i nubiani, erano uomini eccellenti e fornivano soldati di prima scelta all'esercito egizio.



Un malessere strisciante
Tutti questi elementi positivi, benché reali, rispecchiavano di fatto solo la superficie delle cose. Nel frattempo, infatti, andava insinuandosi un sentimento di inquietudine che sarebbe arrivato a erodere le strutture del paese: poco visibile all'inizio, si sviluppò in modo insidioso con il passare degli anni, andando a minare le fondamenta stesse dello Stato. La lunghezza del regno e l'età avanzata di Pepi II non fecero che aggravare il fenomeno: man mano che il sovrano invecchiava, la sua autorità diminuiva; si avvicinava il momento in cui non sarebbe più stato in grado di reagire a eventuali rivolte. Segnali di questo malessere apparvero tra i nomarchi, i potenti governatori delle province. Molti di questi, pur continuando ad applicare le direttive del potere centrale, si allontanavano in maniera impercettibile dall'influenza del sovrano. Indizio rivelatore di questo progressivo allentarsi dell'autorità del faraone era il fatto che alcuni di questi potenti dignitari preferivano farsi seppellire nel proprio feudo piuttosto che scegliere un luogo di sepoltura vicino a quello del sovrano. Sempre più spesso, inoltre, i nomarchi cercano di trasmettere la carica ai propri discendenti, rendendo la funzione ereditaria e conservando le ricchezze nelle mani della propria famiglia. Alcune corti locali, come quella del nomarca di Abydos, arrivarono a competere per fasto e magnificenza con quella del palazzo del faraone a Menfi.



Il potere reale si indebolisce
Preoccupato di mantenere la lealtà di quegli uomini che sentiva allontanarsi, e man mano che invecchiava, Pepi II si mostrò sempre più incline a riconoscere loro alcuni privilegi. Ad esempio, concedeva ad alcuni templi i benefici legati alle terre o ai domini che a lui appartenevano. Per il fatto di essere molto vicino alla Nubia, invece il nomo di Elefantina fu dotato di uno statuto speciale. Benché agli occhi di tutti il faraone continuasse a mantenere l'immenso prestigio della propria carica, iniziative di questo tipo non facevano che indebolire il suo potere, provocando allo stesso tempo il malcontento e la gelosia di coloro che si ritenevano dimenticati o insufficientemente ricompensati. Da tutto ciò derivò una situazione di forte squilibrio politico ed economico: alcune province, più ricche di altre, acquisirono una certa autonomia, il che frammentò e ridusse ancora di più l'importanza del potere centrale. 
Alla morte di Pepi II, l'Antico Regno stava affondando: il potere reale crollò e si frantumò, inizialmente in modo piuttosto impercettibile, poi sempre più velocemente. Partito nell'opulenza e nello splendore, il regno più lungo della storia d'Egitto si concluse in una situazione di crisi che preludeva agli anni travagliati del Primo Periodo Intermedio.


Leggi anche: La lettera di Pepi II a Herkuf: un nano fortunato.

giovedì 10 dicembre 2015

Il "culto" di Ammit

Ad Ammit non erano dedicate cerimonie di culto, né le furono consacrati dei templi. In compenso, "la grande divoratrice" era oggetto di un vero timore reverenziale da parte degli egizi: è in questa chiave, dunque, che possiamo comprendere il rapporto che legava gli uomini dell'epoca a questa civiltà.



Gli abitanti dell'antico Egitto avevano sempre ben presente il ruolo che Ammit svolgeva nel corso del giudizio finale, eppure non dedicarono a questa divinità né templi né cerimonie particolari. Si tratta di una contraddizione solo apparente; di fatto, gli egizi erano consapevoli che la "grande divoratrice" era un nemico da evitare e affrontare al tempo stesso: a questo scopo, elaborarono una vera e propria strategia racchiusa nel celebre Libro dei morti, l'unico vero "antidoto" contro l'insaziabile appetito della feroce creatura.

Uno strumento di protezione
Il Libro dei morti consisteva in un'immensa raccolta di formule magiche e di immagini destinate a rinforzare l'effetto degli incantesimi. Secondo gli egizi, la semplice presenza di questi testi nelle tombe proteggeva i mortali dagli effetti del decesso e permetteva ai defunti di affrontare al meglio la delicata fase di passaggio al regno di Osiride. Per questo, la raccolta di formule era detta anche Libro dell'uscita alla luce del giorno. Tra i diversi incantesimi ve n'era uno di origine antichissima che serviva a impedire ad Ammit di gettarsi sulla sua possibile preda: si chiamava "Dare al proprio cuore una buona coscienza", e permetteva a un cuore carico di colpe di alleggerirsi in vista del giudizio finale. È difficile stabilire se gli egizi vedessero in questa pratica una sorta di inganno perpetrato ai danni di Osiride o, al contrario, una manifestazione di misericordia da parte del dio dei morti. Di fatto, la possibilità degli uomini di redimersi all'ultimo minuto non intaccava il ruolo della grande divoratrice, che consisteva essenzialmente nel dissuadere i mortali dal compiere azioni malvagie e nel convincerli a vivere secondo maat, vale a dire secondo giustizia. Troppo forte e temuto, infatti, era il rischio di cadere tra le fauci della mostruosa creatura. Per inciso, si può notare che le stesse "opere di misericordia" introdotte più tardi dal cristianesimo evocano alcuni dei precetti positivi cui già gli egizi si attenevano per scampare alla dannazione eterna.

"Opere di Misericordia" nell'antico Egitto
È possibile che i testi religiosi egizi abbiano ispirato quelli cristiani? I precetti che seguono, che ricordano quasi alla lettera alcuni insegnamenti del cristianesimo sembrano dimostrarlo: "Ho dato il pane agli affamati e da bere agli assetati. Ho vestito chi era nudo. Ho fatto attraversa il fiume a chi non aveva una barca. Ho sepolto chi non aveva figli". Anche secondo gli egizi, gli uomini che compivono queste buone azioni non dovevano temere il giudizio divino.

Ammit nelle tombe
In teoria, dato che Ammit era già presente nel Libro dei morti, gli egizi non avevano bisogno di raffigurarla una seconda volta nelle tombe. Diverse sepolture dell'epoca, però, fanno eccezione a questa regola, poiché presentano immagini dell'essere infernale dipinte sulle pareti. Una di queste si trova nella necropoli di El-Khokha, nella regione tebana: nella tomba di Nefersekeru, Ammit è raffigurata mentre è in attesa dell'esito della pesatura del cuore di un defunto. Una rappresentazione analoga si trova nella tomba di Bannentiu, in un'oasi del deserto occidentale chiamata Bahariyah, e si potrebbero citare anche altri esempi. Certamente, perché un mortale osasse far rappresentare Ammit sulle pareti della sua sepoltura doveva essere sicuro di possedere un cuore puro. Diversamente, non gli restava che affidarsi alle formule magiche.

Dea o concetto divinizzato?
Grazie ai benefici poteri del Libro dei morti, dunque, Ammit costituiva più una sorta di spauracchio che una reale minaccia. Va detto, peraltro, che l'essere in questione non veniva neanche considerata una divinità in senso stretto. Per gli egizi, si trattava più propriamente di un concetto divinizzato, proprio come Maat, l'altra grande protagonista del giudizio, ma a differenza di Ammit, la dea della verità e della giustizia, era una divinità a tutti gli effetti. Se quest'ultima incarnava la rettitudine, la mostruosa creatura dalle fauci di coccodrillo rappresentava la lotta al male, colei che impediva ai cuori impuri di accedere alla vita eterna. Verso l'anno 1000 a.C., poi, gli egizi cominciarono a vedere in Ammit anche una sorta di figura materna: spingendo i mortali a rifuggire le azioni malvagie, infatti, questa entità divina permetteva loro di accedere a una seconda vita, quindi di rinascere. Questo modo di interpretare la figura di Ammit spiega come mai gli egizi non ritennero opportuno dedicarle templi, cappelle o altari, e come mai non esistesse un clero a lei consacrato. Il culto della "grande divoratrice", infatti, si esprimeva nell'intimo di ciascun uomo, prendendo la forma di quel timore reverenziale con cui ognuno si preparava ad affrontare il giudizio del tribunale divino.


Ammit a Deir el Medina
Come abbiamo visto, la maggior parte delle immagini di Ammit a noi note si trova nei rotoli di papiro del Libro dei morti, tuttavia, sono state ritrovate anche delle raffigurazioni in bassorilievo. La più celebre è nel tempio di Hathor, a Deir el-Medina. Qui, ricordiamo, si trovava il villaggio degli artigiani che realizzarono le tombe della Valle dei Re: molte delle sepolture locali sono decorate con raffigurazioni ispirate al Libro dei morti, in cui Ammit è sempre presente. All'interno del tempio, nella cappella di Amon-Sokar-Osiride, spicca un grande bassorilievo che descrive il rito della psicostasia: mentre il defunto pronuncia la sua confessione negativa davanti a Maat, gli dei Horus e Anubis controllano la pesatura dell'anima e Thot ne registra il risultato; Ammit, che volta loro le spalle è seduta davanti a Osiride; tra lei e Thot, si nota l'inconsueta presenza di un personaggio seduto su una croce ankh: dal ciuffo infantile, sembrerebbe trattarsi di Harprocate, L'Horus bambino. Da quel momento in poi si decide la sorte dell'anima del defunto.

mercoledì 25 novembre 2015

Il culto degli antenati nell'antico Egitto

Fra i popoli dell'antichità gli egizi furono certamente coloro che attribuirono maggiore importanza al culto dei morti. Non sempre, però, le mille attenzioni rivolte agli antenati erano disinteressate...
In un certo senso, si può dire che se gli antichi egizi riservavano così tante attenzioni ai loro cari estinti era anche per un tornaconto personale. Di fatto, secondo le credenze dell'epoca, la vita dei defunti proseguiva nell'aldilà: qui gli antenati conservavano la propria personalità e la capacità di interferire nell'esistenza dei vivi, attirando su di loro la benevolenza degli dei; come dimostra una lettera ad un defunto ritrovata nella tomba di Sanekhenptah a Saqqara  e datata alla VI dinastia:

"(...) Il tuo cuore si manterrà freddo riguardo ad essa (la casa di famiglia)? Sarebbe meglio che tu portassi via chi è qui accanto a te, piuttosto di vedere tuo figlio calpestato dal figlio di Isesi. Svegli a tuo padre Ii (...) Alzati contro di loro insieme ai tuoi padri, i tuoi fratelli e i tuoi amici, abbatti Behesti e Ananekhi (coloro che occupavano illegittimamente la casa) (...)".

Letteratura e poesia dell'antico Egitto - Edda Bresciani - Einaudi, pag. XXXII


Gli "spiriti efficaci di Ra"
Per gli egizi, alcuni avi particolarmente importanti erano degni di un vero e proprio "culto degli antenati". Se questi personaggi illustri non erano di stirpe reale, le celebrazioni a loro dedicate di svolgevano nelle abitazioni private, piuttosto che nei templi. Nel villaggio degli artigiani di Deir El-Medina, a ovest di Tebe, sono stati ritrovati degli altarini per le offerte e delle stele commemorative. Si è potuto così appurare che alcuni defunti si meritarono l'appellativo di akh iker n Ra: "spiriti efficaci di Ra"; in questo modo, si sottolineava che questi morti erano di grande aiuto per i vivi, poiché intercedevano per loro presso il dio solare. I morti, infatti, avevano la facoltà di librarsi in volo fino alla barca sacra di Ra e di accompagnare il dio nel suo viaggio celeste. Ecco perché era così importante assicurarsi il loro favore. Un testo dell'epoca dice a questo proposito: "Divieni un akh per me, davanti ai miei occhi, perché in sogno io possa vederti lottare per me. Allora io deporrò delle offerte per te...". Nella maggior parte dei casi, i figli erano tenuti a seppellire i propri padri e a onorarli. Il culto funerario, e dunque il compito di rinnovare le offerte indispensabili alla "sopravvivenza" del defunto, erano affidati invece a persone appositamente incaricate o alla buona volontà della gente di passaggio.

Lettere per i morti...
Come abbiamo visto i parenti del defunto non mancavano di rivolgere a quest'ultimo delle preghiere e di scrivergli delle vere e proprie lettere. Se, infatti, i morti potevano intervenire nelle questioni che riguardavano i vivi, era necessario comunicare con loro. Come? Semplicemente, indirizzando loro una lettera: dopo aver precisato il nome del mittente e quello del destinatario, si sceglievano le formule più adatte per rivolgersi al morto e si inviava il tutto al suo domicilio, cioè alla sua tomba o al suo feretro. A volte le lettere erano redatte su fogli di papiro o su tele di lino, ma il più delle volte venivano scritte direttamente sui vasi di terracotta che contenevano le offerte. Le lettere più antiche risalgono all'Antico Regno, ma il loro utilizzo divenne più frequente soprattutto negli ultimi secoli del III millennio. Al defunto si chiedeva di intervenire per aiutare la guarigione di un malato, per regolare una questione legata all'eredità o anche di vigilare sui suoi discendenti. Per assicurarsi questo aiuto, l'autore della lettera faceva spesso riferimento alla propria bontà e alla propria diligenza: per esempio, ricordava di aver prestato molta attenzione a pronunciare con cura una formula piuttosto che un'altra durante il rito funebre. In certi casi, però, si ricorreva anche a delle velate minacce. Nella cosiddetta "coppa di Kau", un figlio ricorda alla madre tutto l'impegno profuso nel soddisfare il suo desiderio di mangiare sette quaglie. Come poteva permettere, allora, che suo figlio venisse offeso in sua presenza? Se le cose stavano così, continuava l'autore della lettera, nessuno le avrebbe più garantito il culto funerario. Ovviamente, i vivi non si aspettavano di ricevere delle lettere di risposta dai morti. Speravano, però, che il defunto si manifestasse in sogno per esaudire le loro suppliche.

Rimproveri e maledizioni
A volte, proprio perché conservavano la loro personalità anche dopo il decesso, i morti erano accusati dai vivi di qualche misfatto e rimproverati a dovere, è il caso di quell'uomo che cercò di suscitare la vergogna di un defunto giudicandolo responsabile di un crimine e invitandolo a non commetterlo di nuovo. O, ancora, di quel marito che si lamentava perché la sua sposa lo perseguitava dall'aldilà, invocando il tribunale dell'altro mondo affinché giudicasse fondata la sua lamentela. I morti che venivano sospettati di tormentare eccessivamente i vivi, per esempio portando loro delle malattie, così come i vampiri e gli altri spiriti malvagi nella storia, correvano il rischio di vedere distrutta la loro tomba e il loro nome; questo equivaleva alla loro morte nell'aldilà, cioè a una scomparsa definitiva. È proprio per questo motivo che, alla morte di Akhenaton, i suoi monumenti furono distrutti in tutto l'Egitto: bisognava cancellare ogni tracci di quel sovrano che aveva cercato di imporre al paese una nuova religione. Nei casi estremi, per eliminare i defunti ostili, i vivi ricorrevano anche alle maledizioni o all'esorcismo. Per allontanare o eliminare i nemici del defunto, gli egizi ricorrevano a volte a delle tavolette che servivano a esorcizzare il pericolo: dopo avervi trascritto una formula che conteneva i nomi dei nemici, le rompevano e le bruciavano seguendo un apposito rituale. Alcune di queste tavolette sono state ritrovate piene di chiodi, il che evoca la futura stregoneria. In tempi più antichi, le stesse iscrizioni comparivano su delle coppe: come descritto nei Testi delle piramidi e nei Testi dei sarcofagi, la rottura di questi oggetti poneva fine al banchetto funebre.

Lettera a una sposa defunta
Su un papiro datato al XIII secolo a.C., un ufficiale di carriera si rivolge alla sua defunta sposa con queste parole:
"All'eccellente spirito di Ankhiry! Quale misfatto ho compiuto nei tuoi confronti per cadere nel triste stato in cui mi trovo? Cosa ti ho fatto? Ma ecco quel che hai fatto tu: hai messo la mano su di me benché io non avessi commesso nessuna cattiva azione contro di te (...). Rivolgerò una lamentela contro di te, con le parole della mia bocca, davanti all'Enneade divina dell'aldilà e si vedrà chi di noi due ha ragione (...). Ti ho sposato quando ero un ragazzo (...) ero con te, non ti ho lasciata, ho evitato che il tuo cuore soffrisse. Ho agito così (...) quando svolgevo funzioni importanti per il faraone (...) ed ecco che tu impedisci al mio cuore di essere felice".

venerdì 20 novembre 2015

La tomba di Akhenaton

Il faraone Amenhotep IV, meglio noto come Akhenaton, fu il primo sovrano nella storia a instaurare una religione pseudo-monoteista. Le circostanze della sua morte sono ancora da chiarire, dato che la mummia reale non è stata ancora ufficialmente ritrovata, nonostante i test del DNA recentemente eseguiti dall'equipe del Dott. Hawass. L’esame della sua tomba, però, ha permesso di svelare qualche mistero. Amenhotep IV lasciò un segno indelebile nella storia dell’antico Egitto, arrivando a sfidare persino il clero tebano: si può dire, infatti, che egli fu il primo vero rivoluzionario della storia. Probabilmente era un bambino gracile, forse epilettico e soggetto a strani sogni: non particolarmente amato dal padre, fu educato dalla madre e circondato dal timore reverenziale che incuteva il clero di Amon. A soli quindici anni, alla morte del padre Amonhotep III, il ragazzo divenne faraone con il nome di Amenhotep IV: probabilmente regnò sull'Egitto dal 1372 al 1354 a.C. circa, e sposò la famosissima Nefertiti. Nei primi quattro anni di regno, il nuovo re si attenne al culto dei padri e venerò tutti gli dei del Pantheon egizio, tanto che il suo nome di incoronazione era appunto Amenhotep, che vuol dire: “Amon è soddisfatto”. Queste almeno sono le cose che gli egittologi hanno sempre creduto su questa controversa figura, ma non ci sono certezze su cui basare queste ipotesi.

Il mistero della morte di Akhenaton
Se ancora oggi la sua vita è per noi un'incognita, possiamo solo immaginare quante cose noi egittologi ignoriamo sulle circostanze della morte di Akhenaton. Alcuni pensano che sia stato assassinato, ma finora non ci sono prove a sostegno di questa ipotesi. Persino la mummia del faraone eretico e della sua sposta Nefertiti sono per noi archeologi un punto interrogativo. Come se non bastasse, i nemici di Akhenaton si accanirono contro le effigi del sovrano defunto, nell'intento di cancellare ogni suo ricordo dalla storia dell’Egitto: sono pochi, infatti, i suoi ritratti dipinti o scolpiti giunti fino a noi. Il nome del re venne cancellato anche dai documenti, e divenne proibito persino pronunciarlo. Per di più, dopo la morte di Akhenaton, i sacerdoti e i sostenitori delle vecchie credenze obbligarono forse il suo successore Tutankhamon a evacuare la città di Akhetaton per tornare a Tebe. Oggi, a Tell el Amarna, rimangono solo le tombe dei nobili che servirono Akhenaton, come Huia, il suo tesoriere e ciambellano della regina. Le scene dipinte in questi monumenti sono ricche di fascino, e danno un’idea di quella che doveva essere la vita quotidiana nell'effimera città di Aton.

Le tombe reali di Tell el Amarna
Nulla lo conferma con certezza, ma è probabile che le spoglie di Akhenaton siano state trasferite a Tebe durante il regno di Tutankhamon. Tale idea è alla base del riconoscimento di Akhenaton nella mummia ritrovata all'interno della KV55. Nel 2010 il Dott. Hawass diede il via ad una vera e propria caccia al DNA di Akhenaton e dei suoi parenti, confermando l’ipotesi precedente; tuttavia nulla è certo, poiché molti studiosi nutrono forti dubbi sulla legittimità di questi esami. Inizialmente, il sovrano fu certamente sepolto nella sua capitale, anche se in questa prima tomba sono stati trovati solo pochi resti del loculo originale (in parte ricostruito nel cortile del Museo egizio del Cairo). Quanto alla mummia di Nefertiti, nel tempo, sono state fatte diverse ipotesi, tra cui quella della "Giovane Dama" ritrovata all'interno della KV35, successivamente smentita. Personalmente sono dell'idea invece che la mummia di Nefertiti si trovasse si in quella tomba, ma che in realtà altro non sia che quella della "Dama anziana", tale ipotesi però è basata solo su mie considerazioni personali e non supportata da prove concrete. A Tell el Amarna sono state rinvenute due necropoli, una a nord e l’altra a sud della città di Aton, scavate e studiate nel 1891 da Eugenio Barsanti. La tomba vuota di Akhenaton è situata in una zona poco distante dalla città, ed è orientata verso est, cioè nella direzione in cui sorge Aton. Tutte le sepolture reali nella Valle dei Re, invece, sono orientate verso ovest, il punto cardinale che gli egizi associavano tradizionalmente all'aldilà. Anche la forma rettilinea dell’ultima dimora del re è anomala rispetto alle usanze dell’epoca. Doveva trattarsi, in ogni caso, di un monumento imponente: dopo alcune scalinate, vi è un largo corridoio lungo ben ventotto metri che si affaccia su un pozzo; vi è poi un immensa camera funeraria e una sequenza di sei sale e anticamere. Nella camera mortuaria principale sono stati ritrovati dei frammenti del sarcofago di Ty, probabile testimonianza del fatto che anche la regina madre fu sepolta all'inizio in questo luogo. Tale informazione apre uno scenario molto importante: nella KV55 furono ritrovati alcuni resti del corredo funebre della regina Ty, pertanto è possibile immaginare che madre e figlio siano stati poi trasferiti insieme nella tomba nella Valle dei Re e di conseguenza, la mummia ritrovata all'interno potrebbe veramente appartenere ad Akhenaton.
All'ingresso della necropoli amarniana, invece, gli archeologi hanno scoperto tracce della titolatura reale di Akhenaton e frammenti del suo sarcofago. Altre prove della presenza delle spoglie reali in questo monumento funerario sono costituite dai resti di un dipinto raffigurante i funerali del re, anche se secondo il mio punto di vista i funerali riprodotti non sono quelli di Akhenaton, ma quelli di Nefertiti, divenuta coreggènte del marito con il nome Ankheperura Smenkhara, così facendo, dopo la sua morte, Akhenaton assimilò il nome della moglie (Smenkhara) al proprio, ed ecco perché questo nome viene reso al maschile o al femminile. Inoltre il Dr. Barry Kemp ha recentemente ritrovato un anello in cui sono stati incisi i nomi di Tutankhamon, Akhenaton e Smenkhara, forse altra prova a sostegno della mia ipotesi. Di conseguenza, è possibile ipotizzare, che Akhenaton abbia voluto far rappresentare gli avvenimenti più importanti del suo regno nella propria tomba, come vedremo anche più avanti. Almeno questo aspetto, insomma, sembra essere stato chiarito: il faraone "eretico" fu inumato prima a Tell el Amarna, e in seguito trasferito altrove. Nonostante il pessimo stato di conservazione, la tomba di Akhenaton lascia ancora intravedere alcune tracce dell’antico splendore e, in particolare, della bellezza originaria dei bassorilievi. Poco più in là, due sale contigue ospitano le sepolture di tre delle figlie del faraone: nella sala “alfa”, decorata con scene di adorazione del disco solare e di disperazione davanti al corpo esanime della principessa, giacquero probabilmente le spoglie di Neferneferura e Setepenra; la sala “gamma”, invece, doveva essere la camera funeraria di Makhetaton. Quest’ultima era la figlia prediletta del faraone e le dimensioni contenute della stanza sembrano suggerire che la sua fu una morte precoce.

L'altra tomba di Amenhotep IV?
Nella Valle Ovest a Tebe, alle spalle della Valle dei Re, esiste una sepoltura controversa: la WV23, convenzionalmente associata al faraone Ay, che tuttavia suscita diversi interrogativi. Personalmente reputo che tale tomba venne dapprima iniziata da Akhenaton quando era ancora a Tebe e portava il nome di Amenhotep e poi utilizzata come ultima dimora per Ay. Di fatti, così come suo padre (WV22), è possibile che lui abbia deciso di farsi costruire una prima sepoltura in questa zona della valle, per poi abbandonarla una volta arrivato ad Amarna; e succesivamente Horemheb, una volta salito al trono, preoccupandosi della propria sepoltura, abbia deciso di adagiarci i resti del suo predecessore: Ay. Si spiegherebbe così anche l'accanimento sui cartigli reali delle figure rappresentate all'interno della tomba, fattore che non avrebbe senso altrimenti. Tutto questo resta comunque ipotetico.



Diamo la parola a un collega...
Il Dr.Biagini è un esperto del periodo amarniano, al quale ha dedicato vent'anni di ricerche, ecco le sue personali impressioni:

"Di certo non si può negare il fatto che stiamo parlando di uno dei faraoni più importati della millenaria storia Egizia, e personalmente lo annovererei anche tra i più “interessanti” personaggi che hanno calcato questa terra (parafrasando Manzoni con Napoleone). L’uomo Akhenaton è divenuto lui stesso un archetipo sul quale poi la storia ha “costruito” altri personaggi più o meno leggendari. Non è certo un mistero che il periodo amarniano sia uno dei periodi storici più intriganti ed intricati, questo rende Akhenaton stesso più affascinante, più di quanto già non lo sia di per sé; trovo in questo caso che la psicologia dell’uomo Akhenaton o meglio, quello che di riflesso è giunto fino a noi, sia ancora più interessante di tutte le storie costruite sopra di lui e di tutte le leggende dalle quali si è voluto far discendere il monoteismo, l’ebraismo e per ultimo il cristianesimo stesso, tutto questo non fa altro che contribuire ad aumentare la pressione sulla sua storia e su quello che ha saputo e potuto realizzare in così poco tempo. Vista in questa ottica, sono stati 20 anni circa di regno.. se ci si pensa bene sono nulla in confronto a millenni di storia Egizia, ma 20 anni che di fatto hanno decisamente lasciato il segno. Detto questo, possiamo sicuramente affermare che dal punto di vista archeologico Akhenaton rappresenta uno dei più longevi filoni di ricerca storica e archeologica sia egizia che non. Molte sono le domande che la scienza si pone riguardo Akhenaton. E’ il suo scheletro quello ritrovato nel sarcofago sfigurato della KV55? Perché era lì? E Nefertiti che fine ha fatto? Cosa è successo in quei 20 anni? E ne potremmo fare molte altre, queste sono quelle che mi vengono per prime in mente. Personalmente penso (e preciso appunto che questo è un mio pensiero) che la mummia della KV55 sia effettivamente quello che resta del corpo di Akhenaton, così come quello è probabilmente il suo sarcofago. Il motivo per cui è stato portato a Tebe, si può ipotizzare che sia stato Tutankhamon (o chissà, lo stesso Ay) a far trasportare il sarcofago del re da Akhetaton a Tebe. Certo non deve essere stato un evento facile da digerire per gli Egizi, tanto da sfigurarne il sarcofago con il cartiglio intagliato nel legno. La questione Nefertiti è oggi di gran moda; Nicholas Reeves ha dato uno scossone al mondo egittologico, indicando che nella tomba di Tutankhamon siano presenti altre due stanze nascoste, da lui indicate come stanze contenente le spoglie di Nefertiti. Certo la suggestione è tanta! Sperare (e sognare direi) che dietro queste due pareti (che i radar hanno confermato nascondere sicuramente due pertugi) possa nascondersi l’ultima sepoltura della grande regina, non fa altro che accrescere la dimensione della suggestione che dà il periodo Amarniano. Se ancora oggi, a distanza di quasi 3.500 anni, il nome di quest’uomo suscita emozione, stupore e meraviglia, vuol dire che veramente lui, come pochi altri tra uomini e donne, hanno saputo vincere la morte e diventare eterni."

Conclusioni
Purtroppo sulla questione Akhenaton è impossibile trarre il filo del discorso, l'unica speranza è che l'archeologia ci regali con il tempo nuove prove e altre sfaccettature di questa intrigante personalità. Nonostante l'archeologia, noi archeologi al momento non possiamo fare altro che ipotizzare e confrontarci tra di noi, sperando di poter un giorno arrivare ad una conclusione. 

lunedì 26 ottobre 2015

I testi religiosi degli antichi egizi


A partire dalla XVIII dinastia si trovano depositati nelle tombe - spesso nel sarcofago, presso il corpo del defunto - papiri che contengono raccolte di formule funerarie, note col nome di Libro dei Morti[1], che così come i Testi delle Piramidi e quelli dei Sarcofagi, non ha un contenuto fisso, ma varia a seconda della scelta delle formule e per la loro lunghezza. Dalla XXVI dinastia, però, le formule nel Libro dei Morti sono costanti, cosa che favorisce il formarsi di una tradizione. La numerazione in centonovanta capitoli, quale è data nelle edizioni a noi più vicine (Lepsius), è fittizia; infatti, nessun manoscritto li contiene tutti (un papiro molto tardo, di età tolemaica, li riporta nella loro quasi totalità).
La maggior parte delle formule è derivata dai Testi dei Sarcofagi - che a loro volta derivano dai Testi delle Piramidi -, ma vi si trova anche materiale nuovo, che fissa certe credenze e certe formule in modo determinato. Lo scopo del Libro dei Morti è, anche in questa versione più antica, quello di assicurare l'aldilà al defunto.



Il contenuto del "Libro dei Morti"
Il Libro dei Morti è una raccolta di testi funerari di epoche diverse, contenente formule magiche, inni e preghiere che, per gli antichi egizi, guidavano e proteggevano l'anima (Ka) nel suo viaggio attraverso la regione dei morti. Secondo la tradizione, la conoscenza di questi testi permetteva all'anima di scacciare i demoni che le ostacolavano il cammino e di superare le prove poste dai 42 giudici del tribunale di Osiride, dio degli inferi. Questi testi indicavano inoltre che la felicità nell'aldilà dipendeva dal fatto che il defunto avesse o meno condotto una vita virtuosa sulla Terra.
Il Libro dei Morti inizia con le formule che accompagnavano il bendaggio della mummia, mentre i sacerdoti mettevano i vari amuleti, che sarebbero serviti a proteggere il morto, in punti ben specifici.

"Tu hai il potere, Iside ! Tu conosci la magia ! Questo amuleto proteggerà quest'anima grandiosa. Allontanerà coloro che vorranno farle del male !"
( Formula 156 )

Quando la mummia era pronta si procedeva con il Rito dell'Apertura della Bocca toccando gli occhi, il naso, le labbra, le orecchie e le mani. Questa fase della sepoltura è ben rappresentata e conservata in alcune tombe reali e nobili. Durante questo rituale la formula era pressappoco questa.

"La mia bocca è aperta ! La mia bocca è spaccata da Sciu con quella lancia di metallo che usava per aprire la bocca agli dei. Io sono il Potente. Siederò accanto a colei che sta nel grande respiro del cielo."
( Formula 23 )


Dopo altri vari passaggi, per il defunto era ora di presentarsi nella Sala del Giudizio.

"O cuore mio, non testimoniare contro di me ! Non essermi contro durante il Giudizio. Non essermi ostile in presenza di Colui che tiene la bilancia."
( Formula 30b )


Questa formula, incisa sul dorso di uno scarabeo e avvolto tra le bende della mummia, aiutava l'anima ad estrarre il cuore dal corpo e lo presentava agli dei.
Anubi, poneva il cuore su di una bilancia e lo pesava con la piuma di Maat mentre Thot aspettava con la penna in mano, che il cuore venisse giudicato per poi scrivere il verdetto. Se il cuore veniva giudicato colpevole il defunto sarebbe morto per la seconda volta senza nessun'altra possibilità di salvezza ma grazie alla protezione del Libro dei Morti questo non accadeva mai e Osiride avrebbe dichiarato l'anima di "voce sincera" e questa avrebbe raggiunto i suoi antenati nella Terra delle Canne.

Libro dell'Amduat
È considerato il resoconto del viaggio notturno di Ra nella Duat, l’aldilà. Il dio Sole entra nella Duat attraverso un’apertura nelle montagne presso Abido.

1ª ora
Ra era morto perché gli uomini si erano ribellati e la sua morte aveva causato la distruzione del mondo che ora sperava nella sua rinascita per riportare il mondo a nuova vita.

2ª e 3ª ora
Nella seconda e terza ora notturna, Ra naviga sulla sua barca nelle regioni di Abido, regno di Osiride. Durante la seconda ora vi è la divisione dei campi che verrà saranno assegnati ai morti “giustificati”, cioè a quelli che hanno superato il giudizio del tribunale di Osiride. È un sollievo per i defunti il passaggio di Ra, che sono illuminati dal dio e ai quali vieni promesso, dallo stesso dio, acqua, pane, luce e la sistemazione dei loro corpi che verranno essiccati per evitarne la putrefazione. Nella terza ora Ra prosegue il viaggio verso un’enorme distesa d’acqua.

4ª e 5ª ora
Ora Ra attraversa la necropoli di Saqqara, dove regna Sokar, è un luogo tenebroso, un inferno di sabbia, arido, popolato da serpenti mostruosi.
Magicamente la barca del sole si trasforma in un serpente con una testa a poppa e una a prua per poter scivolare sulla sabbia. Dalle bocche delle teste escono fiamme che rischiarano la via oscura.
Nella quinta ora appare la caverna di Sokar, dove si trova un serpente alato con teste di rettile ed una umana sulla coda. È “Il grande Dio che apre le ali dal piumaggio variegato”.
”Egli vive del respiro che è nella bocca  sua ogni giorno”.
Sul dorso del rettile si trova una figura umana a testa di falco che sembra spostare le ali del serpente è: “If-Sokar che è sulla sabbia”. Giungono sette dei per trainare la barca solare che prosegue il suo viaggio passando al di sopra di tumulo piramidale, che all’interno cela la caverna di Sokar”. Da una collina spunta uno scarabeo: è “Khepri” che dirige la gomena sopra questa caverna in modo che Ra possa riposare.

6ª -7ª - 8ª- 9ª
Il sole naviga sulla sua barca, che ha riacquistato l’aspetto primordiale, attraversando i territori sacri ad Osiride, Signore del Busiri nel Delta.

6ª ora
E’ l’ora più buia della notte ove Ra incontro il proprio cadavere ”if”, la carne, che è contemporaneamente quello di Osiride. Vi è infatti la raffigurazione di un enorme serpente a cinque teste ripiegato ad ellisse attorno ad un uomo supino con uno scarabeo sul capo. La dottrina dell’Amduat è riassunta in questa immagine, rappresentazione della nascita del nuovo sole: l’uomo tra le spire è la carne di Ra e lo scarabeo sul capo porta in sé il germe della rigenerazione. Il dio Nun, l’oceano primigenio, il Caos dove il ba del sole incontra in suo corpo e viene a nuova esistenza riaccendendo la luce solare è il custode della sesta ora. Nun fronteggia nove serpenti, ritti sulla coda ed armati di coltelli che sputano fuoco, questi serpenti sono l’incarnazione della Grande Enneade di Eliopoli e hanno il compito di “arrostire i morti e portare i ba nel Luogo della Distruzione.

7ª ora
Nella settima ora  della notte troviamo la lotta vittoriosa contro Nehahor “dal volto ritorno”, una forma dei dio Apophis. Qui avviene un’altra mutazione della barca del sole, la cabina di legno scompare ed è sostituita dal serpente Mehen, “colui che avvolge” che accoglie il sole tra le proprie spire e lo protegge con l’aiuto di Iside. La sconfitta di Apophis, dal Libro dei Morti di Cheritwebeshet. Il dio If, protetto dagli incantesimi di Iside e del dio Heka, riesce a respingere il serpente Nehahor. Nemico di Ra, ogni notte minaccia l’ordine cosmico e prosciugando la contrada tenta di impedire la navigazione della barca divina per attaccarla e rovesciarla. Ogni volta ne esce sconfitto grazie all’intervento delle divinità benefiche  che riescono a legare con robuste corde il rettile. La prima dea accanto ad Apopi legato è Serqet-Hetit “colei che apre la gola”, l’altro dio che stringe le corde è Heri- Desuf “colui che è sul suo coltello”. Apophis è indistruttibile ed eterno; nonostante ogni notte venga sconfitto il giorno dopo rinasce. Apophis è il Caos. L’ora si chiude con la raffigurazione di un coccodrillo che veglia sul tumulo di Osiride.

8 ª ora
Dopo la lotta con Apophis, Ra continua il viaggio sulla barca divina ed ecco che si aprono per il dio le porte delle caverne, che sono disposte sulle rive del fiume celeste. Tutta l’ottava ora è un enorme cimitero degli dei e le dieci caverne e le tredici porte che vi si trovano sono veri e proprio sepolcri. Alla chiamata di Ra le porte si spalancano e la luce del dio può illuminare le immagini degli dei unite ai loro ba.

9 ª ora
L’imbarcazione divina naviga sull’acqua, mossa dai remi di dodici uomini. Regna l’abbondanza in questa contrada e Ra ordina che pane e birra siano distribuiti a coloro che sono nella Duat. Chiudono la nona ora dodici serpenti raffigurati nell’atto di sputare fuoco, essi divora gli empi che si sono nascosti al passaggio del dio e vivono del sangue di coloro che uccidono

10 ª ora
La barca giunge ora ad Eliopoli, territorio di Ra. Su una barca si nota un serpente con la testa di falco “colui che vive sulla terra”: è il serpente protettore della Duat, il ba di Osiride-Khentimentiu, innanzi procedono dodici personaggi: quattro con disco solare al posto della testa e armati di frecce, quattro uomini muniti di lance e quattro arcieri. Sono la scorta di Ra e hanno il compito di respingere Nehahor nelle tenebre, in modo che il dio solare possa transitare per il portale dell’orizzonte orientale del cielo. Questa contrada è consacrata all’acqua: Horus assiste dodici defunti che si trovano tra i flutti del Nun e con parole magiche dona vita e forma in modo che i rispettivi ba possano vivere.

11 ª ora
AtumViene raffigurata la preparazione alla rinascita di Ra, appare infatti un’immagine del dio Atum, la sua coscienza, davanti ad un’enorme serpente senza nome con quattro piccole gambe e due grandi ali di sparviero. L’annientamento dei nemici, che nelle ore precedenti aveva un ruolo importante, ora è il principale motivo conduttore dell’undicesima ora. Horus ordina a cinque dee armate di coltelli ferme davanti a sei tumuli di punire ogni giorni i nemici, ba, ombre, testi di nemici e nemici capovolti che sono nei tumuli colmi di fuoco.

12 ª ora
La via di Ra viene rischiarata da dodici dee con un serpente al collo che sputano fuoco contro i nemici del dio. La barca divina è trainata da dodici uomini e tredici donne, sono coloro che hanno seguito il dio durante la notte e saliranno sulla sua barca per rinascere. If, il sole morto penetra nel corpo di un gigantesco serpente: “entra per la coda di lui, esce dalla bocca sua, nasce nella sua forma di Khepri”. If  e i morti privilegiati penetrano nel corpo del serpente come vecchi, per poi abbandonarlo ringiovaniti come bambini. Giunge l’alba. Lo scarabeo con l’aiuto di Shu, dio dell’atmosfera, rinasce come disco solare e transita per l’orizzonte orientale, addossato alla parete di sabbia della Duat, simboleggia la figura di Osiride che rimane nel mondo dei morti. Il tema della dodicesima ora è la rigenerazione e la rinascita dei morti, essa dà un senso al viaggio ultraterreno del dio Ra che rinasce ad ogni spuntare del nuovo giorno.

Libro delle ore
Il rituale che appare nel Libro delle Porte è in parte analogo al “Libro dell’Amduat” e compare verso la fine della XVIII dinastia nella tomba del faraone Horemheb nella Valle dei Re. Il libro riprende sia pure con notevoli differenze il tema del viaggio notturno della barca del sole nella Duat, che si svolge in una zona desertica. Questo testo si compone di un riquadro iniziale seguito da undici divisioni e da un riquadro finale o dodicesima divisione. Sulla barca divina, a partire dalla prima divisione, vi sono solo due personaggi: Sia, la sapienza e Heka la magia, riassumono la conoscenza e la realizzazione delle fasi del ciclo solare.
Il dio If , rappresentato con corpo umano, testa d’ariete e disco solare, per rinascere all’alba del nuovo giorno deve attraversare la distesa sabbiosa della Duat, superando dodici Porte fortificate e difese da guardiani e spaventosi serpenti ritti sulla coda e sputanti fiamme. Il libro dell’Amduat descrive i funerali reali che si svolgevano di notte e duravano dodici ore, il tempo necessario per la trasformazione del sole, mente il Libro delle Porte descrive il “passaggio della funzione regale dal sovrano defunto al nuovo re”, quindi la rigenerazione del sole visto come una successione, in un certo senso questo rituale completava il Libro dell’Amduat. Nella seconda divisione la barca del sole viene trainata verso otto persone che tengono sulle spalle una lunga barra “la barca della terra”; accanto un enorme serpente sovrasta dodici dei che sono nella Duat, mentre nel registro inferiore Atum sorveglia il serpente Apophis. Nella terza divisione viene simbolicamente rappresentata la trasmissione del potere reale, mentre nella quinta compare il giudizio dei colpevoli di fronte ad Osiride. Il dio è su una sorta di pedana, la “Collina Primordiale”, mentre di fronte a sé un personaggio porta una bilancia con i piatti vuoti. La punizione dei condannati “a causa di ciò che essi hanno fatto nella grande sala di Ra”, è il tema della sesta divisione; la sopravvivenza del ba è lo scopo che si prefigge Ra nella settima divisione, mentre la purificazione dei defunti è messa in risalto nell’ottava e nella nona viene ripreso il tema della regalità.
Nella decima è raffigurato il castigo di Apophis; il serpente è imprigionato e incatenato da otto dei, sulla catena è raffigurata la dea Serqet, nel registro centrale Ra è trainato su una barca, i suoi occhi si aprono mentre gli addetti al traino recitano:
”O Ra, tu possiedi il volto, Tu sei grande, Tu sei soddisfatto con la tua testa misteriosa.
Il volto di Ra è aperto, gli occhi di Colui che è all’orizzonte vedono, egli disperde le tenebre dell’Occidente”.
In questa raffigurazione si vede il dio Horus-Seth a due teste, posto su due grandi archi con tre urei per parte, rappresentazione della sottomissione del Sud e del Nord. Nell’ undicesima divisione è rappresentata un’altra scena relativa alla punizione di Apophis ancora in catene, preceduto da nove dei armati di coltelli e bastoni, cioè l’Enneade che castiga Apophis. I cinque bastoni ricurvi ai quali il serpente è legato sono Geb e i quattro figli di Horus. La dodicesima divisione tratta il tema dell’uscita dalle tenebre. E’ raffigurato Nun, l’oceano primordiale, che fa scaturire dalle acque del caos la barca solare sollevandola con le braccia, al centro della barca vi è Khepri tra Iside e Nefhti, ai lati ci sono Sia, Shu, Geb e altri tre dei che personificano le porte. Nut capovolta e, uno strano essere che con il proprio corpo forma un cerchio, in modo che i suoi piedi tocchino la testa risalendo dalla parte posteriore, accolgono il disco solare posto al di sopra di Khepri. Anche in questo rituale Ra mantiene la caratteristica di dio universale:

”Il suo viso è cielo, egli è l’eterno, signore degli anni, l’infinito senza diminuzioni”.



[1] Il nome egizio dato alla raccolta era: "Formule per uscire nel giorno" (ru-nu-prt-m-hru).

giovedì 15 ottobre 2015

L'Egitto a Palestrina

I temi d'ispirazione egizia furono copiati in epoca romana, alcune città del centro e del sud d'Italia, come Pompei, ne riflettono il gusto. Ne è un buon esempio il mosaico ritrovato a Palestrina, l'antica Praeneste latina.


Vicino all'urbe di Roma fu fondata una città che divenne poi un importante centro commerciale, la Praeneste romana che oggi conosciamo con il nome di Palestrina. Essa mantenne contatti commerciali con Alessandria e Ostia. E dal porto romano di Ostia importò probabilmente il culto alla dea Fortuna Primigenia, corrispondente all'Iside degli egizi. Nel centro della città fu costruito un santuario dedicato a questa dea, con un'aula con abside e una grotta. Grazie ai contatti con Alessandria, artisti di questa città andarono a Praeneste e decorarono l'aula con un mosaico ispirato a temi egizi. L'originale consisteva in un dipinto alessandrino raffigurante l'inondazione del Nilo nell'Alto e nel Basso Egitto. Iscrizioni greche accompagnavano il disegno, con molti animali e monumenti, sia egizi sia costituiti da cappelle in stile romano. Poiché il santuario era dedicato a Iside, appare nel mosaico un'immagine di questa dea in una processione. 

giovedì 8 ottobre 2015

L'ubicazione della tomba di Alessandro Magno

Alla morte di Alessandro si scatenò la lotta per la successione. Punti importanti in tale disputa erano la cerimonia e il luogo di sepoltura del re, che avrebbero consolidato la posizione di chi avesse avuto il privilegio di seppellire e ospitare il suo corpo. Il progetto originario era quello di costruire un monumento funebre in Macedonia. Tolomeo affidò la soprintendenza del progetto ad Arrhideo, uomo di sua fiducia, e fece spargere la voce secondo cui Alessandro avrebbe detto di voler esser sepolto presso l'oracolo di Amon, a Siwa. Fu costruito uno speciale e sfarzoso carro, un vero santuario su ruote: un colonnato circondava la cella coperta da un tetto rivestito d'oro, in cui si trovava il corpo di Alessandro, racchiuso in un sarcofago d'oro massiccio. Arrhideo, d'accordo con Tolomeo, prese il corpo da Babilonia e si avviò verso la Macedonia; ma Tolomeo gli venne incontro e lo dirottò in Egitto via Damasco, scatenando la guerra con Perdicca, che morì sul Nilo. Il corpo di Alessandro arrivò a Menphis nel 322 a.C., e vi fu sepolto provvisoriamente, in attesa che fosse pronta la sontuosa tomba ad Alessandria. Non si sa di preciso quanto tempo la salma sia rimasta a Memphis: secondo Diodoro e Strabone il corpo fu trasportato ad Alessandria dallo stesso Tolomeo I non appena fu pronta la tomba; secondo Pausania rimase invece quarant'anni a Memphis e fu portato ad Alessandria da Tolomeo II. Nella nuova capitale fu preparato un mausoleo detto Soma o Sema, che si trovava al centro della Neapolis, tra il Faro e il Museion. Il Sema, in cui fu sepolto per primo il grande Alessandro, divenne poi la "necropoli dei Tolomei" fino a Epoca Romana; poi iniziano a perdersi le tracce della stessa necropoli. Nel III secolo d.C., quando la città fu preda di disordini, il Sema sparì per sempre. Stranamente, nessuno dei grandi storiografi parla della necropoli reale; notizie indirette ci dicono che si trattava di un magnifico duomo sotto la cui cupola, al centro, si trovava il sarcofago aureo con le spoglie mortali di Alessandro. Delle nicchie laterali nelle pareti erano state previste per ospitare i corpi dei Tolomei. Le informazioni storiche concernono visite auguste alla tomba di Alessandro, ora per rendergli omaggio, ora per depredarla. Così, Tolomeo IV, che voleva raccogliere insieme tutte le spoglie dei suoi antenati, trasferì i corpi, lasciando vuoto il Sema; uno dei Tolomei, probabilmente l'XI, rubò il sarcofago aureo e lo sostituì con uno di vetro; Cleopatra VII (la più celebre) depredò i tesori della sepoltura in un momento di crisi finanziaria; Augusto, volendo rendere omaggio ad Alessandro, sarebbe disceso nella tomba per porre sul sarcofago una corona d'oro e dei fiori. Anche Caligola passò da quelle parti depredando alcuni tesori. L'ultima visita fu quella di Caracalla, nel 214 d.C., che pose sul sarcofago il proprio mantello, la cintura e i gioielli. Sotto Aureliano e Diocleziano (fine del III secolo d.C.) la necropoli era sparita. Già nel IV secolo d.C. Giovanni Crisostomo diceva di ignorare dove fosse la salma del Macedone. Noi archeologi non abbiamo ancora risolto l'enigma, benché ritrovamenti di grandi statue dall'area della via El Horreya, a nord di Kom el Dik, facciano pensare che quella fosse la zona del Sema. Tuttavia il mistero della sua ubicazione rimane.

giovedì 1 ottobre 2015

La storia di Sinuhe

La storia di Sinuhe è considerata l’opera più completa della letteratura egizia del Medio Regno. Apparentemente è un autobiografia, giunta fino a noi su papiri e su ostraka. Nell’antico Egitto, questo testo fu utilizzato ampiamente per imparare a leggere e a scrivere.


Questa è la biografia, narrata in prima persona, di un uomo della corte di Amenemhat I, che, alla notizia dell’uccisione del Faraone (1962 a.C.) fugge dall’Egitto per paura di possibili disordini. Il racconto comincia con l’arrivo della notizia della morte del re, all'accampamento del principe Sesostri, si trova al comando di un esercito inviato a fronteggiare alcune tribù libiche. Sinuhe fugge attraverso le terre del delta e arriva all’istmo di Suez, dove viene accolto da un gruppo di beduini. Infine giunge al paese di Retenu, in Palestina, dove si stabilisce in una terra chiamata Iaa, sotto la protezione del capo Amunenchi. Sinuhe sposta la figlia del principe di Retenu e diventa un personaggio famoso e potente, capo di una delle tribù. Ormai anziano, Sinuhe riceve una lettera del Faraone Sesostri I, in cui gli si chiede di tornare in Egitto, dove non c’è nulla che debba temere. Nella lettera il sovrano gli promette, oltre a onori e ricchezze, una morte degna in Egitto. 

I testi arrivati fino a noi
Il testo della storia di Sinuhe ci è giunto in scrittura ieratica su numerosi papiri e frammenti di epoche differenti. Ciò testimonia la popolarità di cui godé dal momento della sua composizione (verso il 1.900 a.C.) e che durò nel corso di otto secoli. La copia in miglior condizioni è quella del Papiro di Berlino 3.022, della XII Dinastia, che contiene 311 righe, sebbene però sia andato perso l’inizio del racconto. Questa lacuna è colmata dal Papiro di Berlino 10.499, copiato la fine del Medio Regno, che contiene 203 righe e conserva l’inizio. Tuttavia, il maggior numero di frammenti della storia di Sinuhe ci è giunto su ostraka e ha un origine scolastica. Infatti, questo racconto molto popolare fu utilizzato come modello per la formazione degli apprendisti scribi, che se ne servivano per esercitarsi. L’esempio più importante di tale uso è l’ostrakon conservato all’Ashmolean Museum di Oxford, che consta di 130 righe. Il valore filologico di questa versione è minore, poiché essa fu copiata al tempo della XIX Dinastia, nel Nuovo Regno, una data molto posteriore rispetto a quella della composizione dell’opera. 

L'importanza della storia di Sinuhe
Lo scrittore inglese Rudyard Kliping considerava la storia di Sinuhe come una delle grandi opere della letteratura Universale. E di certo, pur senza essere molto vasta, è l’opera letterario egizia non religiosa più elaborata e che presenta le sfumature più numerose. In primo luogo, la si potrebbe includere nel genere della biografia, insieme ai numerosi esempi di questo tipo di testi trovati nelle tombe dei nobili a partire dall’Antico Regno. Ma questo capolavoro li trascende e non si limita a una mera giustapposizione di dati e all'esaltazione retorica delle virtù e delle gesta del defunto, ma collega gli episodi e le scene con un’intenzionalità drammatica, all’interno di un insieme armonico. La storia presenta il protagonista come un vero essere umano - con le sue debolezze incertezze - e non come un eroe archetipico. Fu concepita come opera letteraria dal suo autore, uno scrittore straordinariamente dotato per l’espressione delle sfumature lessicali e per l’uso di vari registri. Così, per esempio, riusciva a passare da un dialogo quasi colloquiale (come nella conversazione tra il re e la regina) alla retorica più formale (come nelle lettere che si scambiano Sinuhe e Sesostri). L’elaborazione letteraria della storia di Sinuhe sembra essere confermata e ampliata da alcune ricerche, tesi a dimostrare che tale testo non è scritto in prosa, come si credeva, ma in versi. A ragione, questa grande opera fu considerata già dagli stessi egizi come il classico per eccellenza della loro letteratura.


Sinuhe, “il figlio del sicomoro”.

Il nome di Sinuhe è la restituzione fatta dai filologi attuali di un geroglifico che letteralmente significa “il figlio del sicomoro” o, allo stesso modo, “il figlio di Hathor”. Questo nome è composto dal geroglifico dell’oca che precede il segno dell’albero della dea Hathor, il ficus sicomorus, poi si aggiunge il segno determinativo, indicando così che la parola designa un “uomo”. Tra gli egizi era molto diffusa l’usanza di includere i nomi delle divinità in quelli propri di persona di ogni rango, poiché in questo modo chi portava quel nome rimaneva sotto la protezione di tale divinità. Sebbene oggi stia scomparendo, il sicomoro fu molto diffuso nel nord est dell’Africa e divenne un simbolo dell’Antico Egitto. I suoi frutti sono commestibili e il legno, molto resistente, veniva utilizzato abitualmente per i sarcofagi e per scolpire statue.

Consiglio bibliografico: La Storia di Sinuhe

Nel 1954 è uscita al cinema la versione romanzata e ritoccata del romanzo di Mika Waltari, questa volta non ambientato nel Medio Regno ma alla corte di Akhenaton. Una rivisitazione completamente fantasiosa ma di grande pregio, soprattutto per le magnifiche ricostruzioni degli abiti e le straordinarie scenografie.

sabato 26 settembre 2015

L'enigmatica Nefertiti


La regina Nefertiti è probabilmente, dopo Cleopatra, la sovrana d'Egitto più famosa dei giorni nostri. La sua bellezza leggendaria ha destato notevole interesse fin da quando, nel 1912, l'esploratore tedesco Ludwig Borchardt  ritrovò un busto che la ritraeva all'interno di un laboratorio di scultura ad Amarna, odierno toponimo dell'antica capitale "eretica" Akhetaton. Questa straordinaria donna è vissuta in un periodo molto cruciale della storia egizia, fu moglie di un faraone rivoluzionario e forse, divenne faraone lei stessa.
Numerosi sono gli interrogativi che riguardano la sua figura: è stata sovrana d'Egitto? da dove arrivava? quando è morta? dov'è la sua tomba? e il suo corpo? Tuttavia quasi tutte queste domande non hanno ancora avuto una risposta, tutto ciò che noi storici possiamo fare è cercare di elaborare un ritratto fedele alle prove archeologiche emerse fino a questo momento.
Prima di parlare di lei, bisogna tuttavia fornire qualche strumento di comprensione al lettore non addentrato in certe argomentazioni. Quando parliamo di "eresia amarniana", ci riferiamo a quel periodo della storia egizia (Nuovo Regno - XVIII dinastia - circa 1348 a.C./1318 a.C.) in cui un re, conosciuto con il nome di Akhenaton decise di abbandonare in parte i vecchi culti religiosi e riplasmare una nuova forma di fede basandola su un dio di nome Aton, e quindi di porsi come unico tramite tra egli e gli uomini; abbandonando in essenzial modo il culto del dio Amon, che era ormai amministrato da un prevaricante e potentissimo clero tebano. Il faraone, salito a trono come Amenhotep IV, cambiò così il suo nome in Akhenaton e spostò la capitale del paese più a nord rispetto a Tebe. Il giovane re, ereditò da suo padre un Egitto che aveva già tutti i problemi che spesso, in modo superficiale, vengono attribuiti come unico frutto del suo regno. È per l'appunto rilevante sottolineare che i suddetti problemi intestini erano ormai evidenti anche nell'eredità lasciata da Thutmosi IV ad Amenhotep III, e che quest'ultimo tentò già durante il suo regno di ridimensionare lo strapotere dei sacerdoti di Tebe. Questa manovra politica culminò in un vero e proprio scisma, che divise il paese e sconvolse la vita di tutti quelli che vi presero parte, fra questi Nefertiti.
Nefertiti compare nelle rappresentazioni reali, o meglio, nel gruppo familiare di Akhenaton fino al quattordicesimo anno di regno del marito, dopodiché il suo nome scompare o forse cambia. Infatti, nello stesso periodo in cui non si hanno più tracce di lei in quanto regina, compare una nuova figura, forse coreggènte dello stesso faraone: Neferneferuaton Ankheperura. È possibile, al contrario da quanto ipotizzato da molti, che Nefertiti non sia morta, ma che semplicemente abbia assunto una carica più importante.
Che questo nuovo "re" potesse essere la regina Nefertiti, fu ipotizzato per la prima volta da Henri Gauthier nel 1912, poi da Campbell nel 1964 e infine da Nicholas Reeves in tempi più recenti. Infatti Gauthier affermò che: "il primo nome, e l'originale, del coreggènte di Akhenaton era Neferneferuaton, e... che l'adozione del nome alternativo Smenkhara fu una modifica posteriore".
Difatti, dopo la morte di Akhenaton, compare una nuova figura estremamente misteriosa, che da sempre desta numerosi quesiti: Smenkhara. Questo nome è stato associato a diversi personaggi dell'antico Egitto e a molteplici parentele; fratello o figlio di Akhenaton, padre di Tutankhamon o anche sorella dei due. E se in realtà l'enigmatico Smenkhara altri non era che la bella Nefertiti? Se così è stato, quando è iniziata la loro coreggenza?

Forse è possibile datarla nel dodicesimo anno di regno di Akhenaton grazie ad un rilievo ritrovato nella tomba di Huya e Meryra II ad Amarna.


In questo bassorilievo è possibile notare come il re e il suo coreggènte sembrino quasi essere uniti in un'unica entità, resa da una posizione quasi virtuale dei due regnanti, come se si volesse enfatizzare l'unicità del loro essere.
Questa prova però confermerebbe l'ipotesi della coreggenza tra i due sposi, mentre la verità sull'identità di Smenkhara resta ancora oggi una vera incognita. Alcuni studiosi hanno ipotizzato che alla morte del re, Nefertiti, ormai coreggènte assodato, abbia ricambiato il proprio nome da Neferneferuaton Ankheperura ad Ankheperura Smenkhara. Altri egittologi invece hanno formulato una teoria secondo la quale egli/ella non fosse altro che la primogenita di Akhenaton: Merytaton. Tuttavia, nessuna ipotesi potrà mai essere veramente confermata in base alle prove ad oggi in nostro possesso. L'unica speranza per la risoluzione di questo puzzle resta come sempre l'archeologia, che forse, prima o poi, tirerà fuori nuovi reperti di quel lontano passato.
Se nulla di certo si sa della sua vita, in eguale misura, nulla di sicuro si può sapere sulla sua morte, sulla sua tomba o sulla sua mummia.

Nel 2003 l'archeologa inglese Joann Fletcher si convinse di aver ritrovato la mummia della regina, occultata dai sacerdoti egizi in un nascondiglio all'interno della tomba KV35 di Amenhotep II. La mummia in questione, soprannominata "The younger lady", risultò essere appartenuta ad una donna morta troppo giovane per essere la regina Nefertiti. Nondimeno, nel 2010, si è potuto appurare tramite il test del DNA, che la giovane dama altri non era che la madre del leggendario Tutankhamon. Tuttavia, la sua identità resta un mistero, molti ipotizzano che possa essere Kiya, seconda sposa di Akhenaton e che forse morì di parto.

Il mio nuovo libro: Immortali - Le mummie di uomini e donne dell'antico Egitto.

 Con questo post voglio inaugurare il nuovo blog. Ormai è passato circa un anno dal mio ultimo post ed è arrivato il momento per me di torna...